L’alta fedeltà video: fondamenti di colorimetria

Il coinvolgimento emotivo che la riproduzione in casa di un evento musicale o cinematografico può produrre è direttamente legato al parametro “fedeltà”, ovvero alla capacità dell’impianto audio-video di ingannare i nostri sensi producendo stimoli tanto verosimili da poter essere psicologicamente accettati come veri dal nostro apparato sensoriale. Nel nostro paese, grazie anche al lavoro pluridecennale del nostro team, esiste ormai una salda platea di “audiofili”, ovvero di appassionati di musica piuttosto competenti quanto a tecnica della riproduzione del suono e quindi ben capaci di districarsi tra componenti e tecnologie senza lasciarsi troppo fuorviare dai mille lustrini del marketing. Crediamo invece che la cultura “popolare” della fedele riproduzione video inizi proprio ora, grazie al DVD, a muovere i primi passi, ed è per questo che vogliamo dedicare spazio ed articoli ai temi della fedele riproduzione delle immagini, partendo ovviamente dai fondamentali, ovvero dal funzionamento del nostro apparato visivo. Lo scopo è lo stesso che perseguiamo da tanto tempo nell’audio: mettere i nostri lettori in grado di effettuare valutazioni quanto più possibile oggettive ed autonome degli apparecchi che proviamo, e di interpretare correttamente le altrettanto oggettive misure di laboratorio che sin dallo scorso numero abbiamo iniziato ad introdurre anche sul video. Ancor più che nel mondo dei suoni, in quello delle immagini le differenze tra gli apparecchi sono spesso grandi ed importanti, e la loro valutazione non può essere lasciata solo al giudizio soggettivo (per sua natura potenzialmente condizionabile, e comunque non uniforme) di un recensore.
Questo articolo è dedicato al colore, alla sua natura, ai tentativi di costruirne un modello esatto ed ai limiti insiti nella sua riproduzione.

Figura 1. Sensibilità spettrale dell’occhio umano (funzioni colorimetriche del cosiddetto “Osservatore standard”, CIE 1931).

Figura 1. Sensibilità spettrale dell’occhio umano (funzioni colorimetriche del cosiddetto “Osservatore standard”, CIE 1931).

Qualunque “evento sensoriale” è caratterizzabile mediante un certo numero di parametri fisici. Se ad esempio facciamo riferimento ad un’orchestra che suona in una sala concerti, avremo un livello di rumorosità di fondo, che definisce l’intensità del minimo suono percepibile, ed un livello di pressione massimo, corrispondente ai più potenti “pieni” orchestrali. La differenza tra questi due valori indica la “dinamica” sonora, espressa tipicamente in deciBel. Analogamente avremo dei suoni di frequenza minima, probabilmente le subarmoniche più profonde dei timpani, o il do fondamentale dell’organo, e dei suoni di frequenza massima, che potrebbero essere le armoniche più alte degli ottoni o dei violini. La differenza tra questi due limiti definisce la “banda” (ovvero lo spettro) del segnale. Avremo poi delle caratteristiche legate alla collocazione spaziale degli strumenti, altre che descrivono i legami temporali tra i vari suoni emessi, e via discorrendo: per poter essere definito “fedele”, un sistema di registrazione e di riproduzione del suono deve essere in grado di mantenere il più possibile inalterati tutti questi parametri, oppure di modificarli (in genere limitandone l’escursione) in un modo “credibile” per il nostro sistema uditivo e nervoso. Per le immagini avviene lo stesso: i nostri occhi sono soggetti a stimoli che variano in termini di ampiezza (luminosità), distribuzione spettrale (colore), direzione, dimensione angolare e rapidità, ed il sistema di ripresa-visualizzazione deve essere in grado di riproporre una buona approssimazione di queste caratteristiche senza introdurre artefatti (distorsioni) tali da rompere l’incantesimo della “full immersion”. Naturalmente, non possiamo pretendere troppo da tecnologie che hanno pochi decenni di vita, da paragonare alle centinaia di milioni di anni di evoluzione biologica. Il nostro orecchio, sia pure con il “trucco” dello spostamento della finestra percettiva, è in grado di percepire suoni distanti tra loro oltre 140 dB, vale a dire un rapporto energetico 1/100.000.000.000.000 (centomila miliardi!), ed il nostro occhio è in grado di distinguere, nel buio più completo, stelle di magnitudine 6.5, così come di sopportare per alcuni decimi di secondo la luce del sole, vale a dire un dislivello di intensità luminosa da 1 a 21.000.000.000.000 (ventunomila miliardi). Se è almeno ipotizzabile un impianto audio in grado di riproporre la massa sonora di una grande orchestra (del resto gli impianti dei concerti rock fanno ben altro) ed anche un caccia militare in fase di decollo, per molto tempo ancora la massima luminosità di televisori e proiettori sarà ben lungi dal poter equivalere alla realtà che i nostri occhi sperimentano ogni giorno. Ciò non significa che la fedeltà video sia una chimera, ma solo che occorre avere ben presenti i termini del problema, se ci si vuole orientare correttamente nella varietà di tecnologie e componenti che oggi il mercato propone. Uno degli aspetti della fedele riproduzione delle immagini più interessanti e più vincolati dalle odierne tecnologie è quello del colore.

Cenni storici

I primi a farsi domande ed a tentare risposte sulla natura del colore furono i “soliti” Aristotele e Platone, ma per arrivare ad una interpretazione corretta nella sostanza, pur se non nelle conclusioni, occorre saltare anche Leonardo ed arrivare al 1500, ovvero ad Isaac Newton. Questo scienziato immenso, quanto uomo nevrotico e talvolta meschino, fu il primo ad osservare che la luce che attraversa un prisma viene rifratta con angoli differenti, corrispondenti a differenti colori, e fu anche il primo a ricombinarli per riprodurre luce bianca, deducendone correttamente che “… la luce è una miscela eterogenea di raggi differentemente rifrangibili”. Egli osservò anche un altro aspetto fondamentale della natura del colore, ovvero che un oggetto avente un certo colore sotto la luce solare può apparire di qualunque colore se illuminato con luce colorata, sebbene appaia più luminoso quando illuminato con luce dello stesso suo colore sotto luce solare. Dal che ne dedusse, pure correttamente, che l’apparenza del colore è dovuta alle differenti capacità delle sostanze di riflettere le diverse componenti della luce bianca. Purtroppo, oltre alle corrette interpretazioni legate ai suoi esperimenti con la luce, nelle conclusioni generali egli fu fuorviato da altri esperimenti effettuati con polvere colorata: in particolare notò che miscelando polvere gialla e blu si poteva ottenere il verde, ed il tal modo confuse la sintesi additiva del colore con quella sottrattiva (tra poco vedremo di cosa si tratta), generando un pregiudizio che, anche grazie alla credibilità dell’autore, perdurò per altri due secoli. Un importante passo avanti fu compiuto da Thomas Young agli inizi dell’800, quando, nel proporre la sua teoria della luce come ondulazioni che si propagano in un etere elastico, egli propose che “… la sensazione dei differenti colori dipende dalla differente frequenza delle vibrazioni, eccitate dalla luce nella retina”.

Figura 1. Sensibilità spettrale dell’occhio umano (funzioni colorimetriche del cosiddetto “Osservatore standard”, CIE 1931).

Figura 1. Sensibilità spettrale dell’occhio umano (funzioni colorimetriche del cosiddetto “Osservatore standard”, CIE 1931).

Young intuì inoltre che la retina è sensibile solo a tre colori principali, e che la percezione delle varie tonalità dipende dal grado di eccitazione dei tre tipi di recettori: “… è quasi impossibile concepire che ogni punto sensibile della retina contenga un numero infinito di particelle, ognuna capace di vibrare in perfetto unisono con ogni possibile vibrazione, per cui diventa necessario supporre che questo numero sia limitato, ad esempio, ai tre colori principali, che sono il rosso, il giallo ed il blu”. Tutto giusto, fuorché la scelta del giallo, e ciò mantenne i ricercatori della natura del colore in uno stato di generale confusione per altri cinquant’anni, ovvero fino ad Hermann von Helmholtz, che nel 1952 pose finalmente dei paletti fondamentali sulla percezione del colore, comparandola tra l’altro con quella uditiva: “… Raggi luminosi di differente lunghezza d’onda e colore si distinguono nella loro azione fisiologica da toni acustici di differente frequenza perché ciascuna coppia dei primi, agendo simultaneamente sulle stesse fibre nervose, genera una sensazione semplice nella quale il più esperto organo (visivo, n.d.r.) non può distinguere i singoli elementi componenti, mentre due toni, sebbene eccitanti per mezzo della loro azione unita la peculiare sensazione dell’armonia o della dissonanza, possono indubbiamente essere sempre singolarmente distinti dall’orecchio. L’unione delle sensazioni di due differenti colori in uno solo è evidentemente un fenomeno fisiologico, che dipende unicamente dalla peculiare reazione dei nervi ottici. Nel puro dominio della fisica tale unione non ha luogo realmente. Raggi di differenti colori procedono fianco a fianco senza alcuna azione mutua, e sebbene all’occhio essi possano apparire uniti, possono sempre essere separati l’uno dall’altro con mezzi fisici.”. E finalmente fu corretta anche la scelta dei colori fondamentali, il rosso, il verde ed il blu. Senza dimenticare il contributo di Hermann Grassmann, che per primo applicò l’analisi vettoriale per calcolare i risultati della somma di colori differenti e così facendo scoprì i colori “opponenti” (che sommati al prescelto danno come risultato il bianco), un altro grande contributo alla sistematizzazione del fenomeno colore venne da James Clerk Maxwell, che per mezzo di un artificio davvero ingegnoso (un disco da far ruotare rapidamente, bianco e nero in proporzioni variabili nella parte interna, colorato in proporzioni pure modificabili con i colori primari nell’anello esterno) effettuò studi sulla isoluminosità di colori diversi e propose un primo significativo spazio rappresentativo del colore.

Basi del funzionamento dell’occhio umano

Nella retina umana sono presenti due tipi di recettori: i bastoncelli, sensibili solo all’intensità della radiazione luminosa incidente, ed i coni, che sono di tre tipi, ciascuno sensibile (quasi) unicamente ad una certa sottobanda della luce visibile (quella la cui lunghezza d’onda oscilla approssimativamente tra i 380 ed i 700 nanometri, ovvero da 789 a 428 THz). I primi sono molto più sensibili dei secondi (la penombra non ha notoriamente connotazioni di colore), sono collocati per lo più in posizione eccentrica rispetto all’asse ottico (ed infatti la visione distolta è molto più sensibile di quella diretta) e sono quindi responsabili della visione notturna ed in generale di tutte le sorgenti luminose di bassissima intensità. I coni presentano sensibilità e soglie percettive differenziate e, come si è ormai ben compreso, sono i responsabili della sensazione del colore, che altro non è se non uno stimolo determinato dal rapporto reciproco tra le intensità luminose (nelle rispettive bande) cui sono esposti i tre tipi di recettori e dal livello assoluto di intensità luminosa. Il grafico di sensibilità spettrale dei tre tipi di coni oggi comunemente accettato è quello di figura 1, in cui in ascissa compare la lunghezza d’onda della luce che colpisce il recettore ed in ordinata l’energia relativa (in alternativa si potrebbe utilizzare l’efficienza quantica relativa, ovvero il numero normalizzato di fotoni di una certa lunghezza d’onda, la cui energia è proporzionale alla frequenza moltiplicata per la costante di Planck). Poiché la distribuzione dei recettori non è uniforme rispetto all’asse ottico, sono state stabilite altre curve standard (ovviamente con metodi statistici) per angoli di vista differenti, che tuttavia non divergono in modo sostanziale da quella riportata. A questo punto dovrebbe essere chiaro che il colore non è una qualità intrinseca dei corpi, bensì il set di stimoli (in colorimetria si parla infatti di “valori tristimolo”) risultante dal prodotto dello spettro della luce incidente su di un corpo per l’indice di riflessione del corpo stesso in funzione della frequenza (figura 2); in altre parole, dati due spettri di luce e due indici di riflessione opportunamente scelti è possibilissimo ottenere stimoli visivi assolutamente identici (fenomeno che prende il nome di “metamerismo”). Qui abbiamo parlato solo di colori percepiti per riflessione, ma il discorso è facilmente estensibile ai colori ottenuti per trasparenza (filtri), mentre il caso dei corpi fosforescenti è diverso ed andrebbe trattato a parte, se non fosse di scarso interesse per i nostri scopi.
Già da queste prime, elementari nozioni, possiamo dedurre alcune considerazioni, che più in seguito vedremo poter essere sistemate in maniera organica:

  1. Se la percezione del colore dipende dall’intensità della luce, esisterà una gamma di livelli di luminosità in cui la “dinamica” del colore, intesa come capacità di percepire differenze di tonalità, sarà ridotta od inesistente, salendo invece con l’intensità luminosa. Inoltre, nella regione di transizione tra l’area di attivazione dei bastoncelli e quella dei coni alcuni colori saranno marginalmente percepibili, altri no.
  2. La strepitosa capacità dinamica dell’occhio, al pari dell’orecchio, è ottenuta grazie alla non linearità nella percezione degli stimoli (grosso modo, per raddoppiare la sensazione di intensità luminosa occorre quadruplicare l’entità dello stimolo), ma nondimeno esisterà un livello di saturazione approssimando il quale la capacità di discernere differenze di intensità e di tonalità tende a scomparire.

Sintesi additiva e sottrattiva

Figura 3. Diagramma di cromaticità Yxy (CIE 1931). I colori della luce monocromatica (costituita cioè da radiazioni di una singola frequenza) sono collocati lungo la parte perimetrale curva. Il segmento rettilineo, corrispondente a proporzioni diverse delle sole componenti blu e rossa, è indicato come percorso delle “porpore sature”.

Figura 3. Diagramma di cromaticità Yxy (CIE 1931). I colori della luce monocromatica (costituita cioè da radiazioni di una singola frequenza) sono collocati lungo la parte perimetrale curva. Il segmento rettilineo, corrispondente a proporzioni diverse delle sole componenti blu e rossa, è indicato come percorso delle “porpore sature”.

L’occhio opera per “sintesi additiva”, ovvero il colore percepito è la somma degli stimoli relativi ai tre colori fondamentali, ed è in questo modo che quindi operano tutte le sorgenti video. In un tubo catodico, così come nei cannoni di un proiettore, o nei filtri di un chip DLP, il colore viene formato direttamente nel modo in cui verrà recepito dall’occhio umano, generando cioè gli stimoli nei tre colori fondamentali (detti anche “primari”) rosso, verde e blu (ma, come è noto forse a tutti, per indicare questa terna di solito si usa l’acronimo inglese RGB). È possibile però generare i colori anche in maniera indiretta, ovvero per sottrazione di componenti (da cui la locuzione “sintesi sottrattiva”), se si è certi di poter disporre di una luce a spettro continuo e di distribuzione nota: una luce perfettamente bianca alla quale vengano sottratte le componenti rossa e verde diventa infatti una luce blu, e lo stesso vale ovviamente per le altre due coppie di colori che si possono considerare. Questo processo è l’unico utilizzabile per riprodurre i colori mediante stampa, ovvero su soggetti che non emettono luce ma sono però illuminati da luce più o meno bianca (quella del sole, oppure di una sorgente artificiale). I colori fondamentali della sintesi sottrattiva sono ovviamente quelli complementari di ciascun colore primario rispetto al bianco, e determinano la quasi altrettanto famosa terna CMY (Cyan/Magenta/Yellow, ovvero verde + blu, rosso + blu, rosso + verde), ancor più nota nella forma CMYK. Sebbene infatti in teoria la somma di pigmenti CMY dovrebbe assorbire completamente la luce, ovvero generare il nero, impurità degli inchiostri di stampa ed assorbimento degli stessi da parte del supporto (carta od altro) impediscono l’ottenimento di questo risultato, per cui nei processi di stampa viene usato anche direttamente l’inchiostro nero (da cui il K aggiunto) in sostituzione (od in aggiunta) alle combinazioni CMY più dense.

La misura del colore: gli spazi colorimetrici

Figura 4. Gamme dei colori riproducibili (gamut) tipiche di un monitor televisivo e di due diversi set di inchiostri per stampa. La corrispondenza dei gamut di dispositivi diversi è uno dei problemi maggiori per la gestione integrata del colore, ed è particolarmente sentito proprio nell’ambito delle edizioni specializzate del nostro settore. Sarebbe un po’ contraddittorio trattare di alta fedeltà, audio e video, e poi produrre una rivista con colori men che massimamente fedeli all’originale…

Figura 4. Gamme dei colori riproducibili (gamut) tipiche di un monitor televisivo e di due diversi set di inchiostri per stampa. La corrispondenza dei gamut di dispositivi diversi è uno dei problemi maggiori per la gestione integrata del colore, ed è particolarmente sentito proprio nell’ambito delle edizioni specializzate del nostro settore. Sarebbe un po’ contraddittorio trattare di alta fedeltà, audio e video, e poi produrre una rivista con colori men che massimamente fedeli all’originale…

Possiamo misurare il colore e collocarlo in un opportuno spazio metrico? La risposta non è semplice. Abbiamo acquisito delle indubbie certezze sui meccanismi fondamentali della percezione e possiamo senza grandi problemi misurare i valori tristimolo, ma la percezione umana non è quella di un robot, essendo ampiamente mediata ed integrata dall’intelligenza (che a sua volta si appoggia all’esperienza maturata del mondo esterno). La creazione di un modello univoco ed esaustivo pone quindi problemi davvero complessi, se non insormontabili, tant’è che negli organismi che si occupano di standardizzazione queste problematiche vengono affrontate di continuo con proposte che cercano di colmare le lacune lasciate dagli studi precedenti. Un punto di riferimento comune nelle trattazioni in cui è coinvolta la misura oggettiva del colore è comunque lo spazio colorimetrico Yxy definito nel 1931 dalla Commission Internationale de l’Eclairage (CIE), visibile in figura 3. Su questo piano xy, che vedete alterato proprio in termini cromatici per i limiti legati ai processi di stampa, è riportata l’intera gamma di colori visibili, dato un certo livello di luminosità Y. Dato che gli stimoli fondamentali sono 3 ci si potrebbe attendere che un simile spazio non possa che essere rappresentato da un modello a tre dimensioni, ma il diagramma CIE è in effetti uno spazio trasformato, in cui sussiste un vincolo tra l’intensità dello stimolo x (rosso), quella dello stimolo y (verde) e quella dello stimolo z (blu), ovvero x+y+z=1. Una proprietà importante di questo spazio bidimensionale è che, scelto su di esso un set di colori (almeno 3) e definito quindi un poligono, è possibile generare mediante tale set tutti i colori contenuti all’interno del poligono, ma non quelli esterni. Dalla forma irregolare della superficie che descrive i colori naturali si comprende pertanto subito che, per generare tutti i colori percepibili, occorrerebbe utilizzare una terna di colori immaginari (esterni cioè all’area di quelli veri), oppure un numero molto elevato (al limite infinito) di colori monocromatici (costituiti da una sola riga spettrale, che nello spazio CIE corrono sulla parte curva del perimetro) interni alla banda del visibile (come detto in precedenza, da 380 a 700 nanometri). Se, come è necessario fare operando con le attuali tecnologie, per riprodurre artificialmente i colori si utilizza solo una terna di colori reali, sussisterà comunque una buona porzione di colori naturali non riproducibili. In figura 4 possiamo constatare quanto ciò sia vero osservando le gamme di colori riproducibili (gamut) con un buon monitor (od un televisore), con un set di inchiostri per quadricromia CMYK e con il set di inchiostri PMS (Pantone Matching System). Da notare che, anche supponendo condizioni di illuminazione ideali, la gamma CMYK presenta differenze di non poco conto rispetto a quella di un televisore, e nella realtà quotidiana tale gamma è ulteriormente ristretta dagli onnipresenti vincoli qualitativi della carta e dei processi di stampa (soprattutto in termini di uniformità della densità): ciononostante, a tutt’oggi esistono riviste che propongono confronti pseudoquantitativi tra televisori pubblicando le fotografie (altro passaggio alterante) delle barre di colore! Un po’ come se noi pretendessimo di illustrare ai nostri lettori il suono di un sistema di altoparlanti allegando alla rivista una cassetta con la registrazione neppure della seduta d’ascolto, ma di 10/12 sinusoidi di prova…

Figura 5. Modello di spazio tridimensionale dei colori. In un solido come questo la luminosità procede dal basso verso l’alto, la tonalità (o tinta, ovvero il colore naturale puro) è descritta sul perimetro circolare esterno di ogni anello di luminosità ed infine la saturazione (alias la purezza spettrale del colore) procede radialmente dall’asse interno verso l’esterno.

Figura 5. Modello di spazio tridimensionale dei colori. In un solido come questo la luminosità procede dal basso verso l’alto, la tonalità (o tinta, ovvero il colore naturale puro) è descritta sul perimetro circolare esterno di ogni anello di luminosità ed infine la saturazione (alias la purezza spettrale del colore) procede radialmente dall’asse interno verso l’esterno.

Se si rappresenta la gamma dei colori naturali su di un solido, il modo più efficiente è quello descritto in figura 5, nel quale le coordinate spaziali possono essere descritte nei termini facilmente comprensibili di luminosità, tonalità e saturazione. La luminosità procede dal basso verso l’alto, la tonalità (ovvero il colore naturale puro) è descritta sul perimetro circolare esterno di ogni anello di luminosità ed è quindi associabile ad un angolo, mentre la saturazione (ovvero la purezza spettrale del colore) procede radialmente dall’asse interno (ove giacciono i livelli di bianco, alias il mix uniforme di tutti i colori) verso l’esterno. La forma, pur se irregolare per via della peculiarità delle funzioni di sensibilità dei tre tipi di recettori visivi, somiglia approssimativamente a due tronchi di cono fatti combaciare sulle basi, ed il motivo è ben comprensibile. Nella regione delle basse intensità luminose il croma non è percepibile, per cui la gamma delle tonalità (e con essa la saturazione) è ridotta o nulla, aumentando progressivamente fino alla regione delle luminosità intermedie (corrispondenti in linea di massima a quella di una giornata soleggiata). Man mano che la luminosità sale i recettori del colore tendono a saturare e la gamma dei colori percepibili si restringe in aree sempre più strette intorno all’asse centrale, congruentemente con l’esperienza, facilmente riscontrabile per chiunque, che anche una sorgente caratterizzata da un colore puro appare pressoché bianca se emette con una intensità molto alta. Gli spazi di rappresentazione tridimensionali forse più usati sono stati ancora definiti dalla CIE e sono lo spazio CIE L*a*b* (”amichevolmente” pronunciato CIELAB) e lo spazio CIE L*u*v*, entrambi definiti nel 1976 per ovviare ad uno dei maggiori inconvenienti della rappresentazione CIE Yxy: a distanze uguali sul diagramma non corrispondono ovunque differenze di colore percepite come uguali. Nel CIELAB (fig. 6) la luminosità L* viene rappresentata come visto sopra, ma in modo non lineare (non essendo lineare la percezione del nostro sistema visivo), mentre a* e b* sono le coordinate cromatiche, che fanno riferimento a 4 colori fondamentali: +a*=rosso, -a*=verde, +b*=giallo, -b*=blu. Il CIELUV fa riferimento alle coordinate cromatiche u* e v* in un diagramma di cromaticità simile a quello del 1931, ma differentemente esteso e ruotato. In figura 7 possiamo confrontare qualitativamente due “fette” discretizzate di questi spazi colorimetrici, ottenute per due angoli (tonalità di colore) contrapposti.

Figura 6. Rappresentazione dello spazio colorimetrico tridimensionale CIE L*a*b* (CIELAB).

Figura 6. Rappresentazione dello spazio colorimetrico tridimensionale CIE L*a*b* (CIELAB).

La temperatura di colore

Un altro elemento rilevante quando si parla di colore in termini quantitativi è la temperatura di colore. Qualunque corpo più caldo dello zero assoluto emette radiazione propria, tanto maggiore quanto maggiore è il suo potere assorbente delle radiazioni esterne (il corpo più emittente è infatti il cosiddetto “corpo nero”, un’astrazione fisica che può comunque essere sufficientemente approssimata da alcune sostanze reali, come ad esempio il nerofumo) e quanto più alta è la sua temperatura (l’energia irradiata è proporzionale alla quarta potenza della temperatura, legge di Stefan-Boltzmann). Anche la distribuzione spettrale dell’energia emessa varia con la temperatura ed è descritta in modo alquanto soddisfacente dalla famosissima legge di Planck, che integra energia complessiva e sua distribuzione in frequenza.

Figura 7. Esempi di “fette” discretizzate di spazi colorimetrici tridimensionali (CIELAB e CIELUV) per due valori angolari (tinte) opposti.

Figura 7. Esempi di “fette” discretizzate di spazi colorimetrici tridimensionali (CIELAB e CIELUV) per due valori angolari (tinte) opposti.

I corpi a temperatura ambientale emettono spettri deboli, con picchi di emissione collocati nelle regioni dell’infrarosso, od ancora più in basso, mentre salendo ad alcune migliaia di gradi il picco si sposta dapprima nel rosso, poi nel verde e nel blu, per poi salire nell’ultravioletto ed oltre a temperature dell’ordine dei 10.000 e più gradi. Ogni temperatura genera un ben determinato rapporto di valori tristimolo nella banda del visibile, ed è pertanto naturale associare a tali rapporti anche una temperatura, intesa come temperatura di corpo nero che meglio approssima quel set di valori tristimolo (o perlomeno una coppia di tali valori, ad esempio il rosso ed il blu) e comunque, più in generale, lo spettro di luce che si vuole descrivere. La temperatura della luce solare è di 5800 gradi kelvin, poiché tale è (in prima approssimazione) la temperatura della cromosfera solare (la parte superficiale del sole). Se riportiamo sul piano Yxy i colori corrispondenti alla radiazione del corpo nero alle temperature in cui il picco cade nel visibile, otteniamo la curva di figura 8. Qualunque dispositivo per la riproduzione di immagini a colori deve possedere una “temperatura di colore” del bianco (e di tutti i livelli intermedi di grigio) pari, o comunque molto prossima, a quella solare, altrimenti è affetto da dominanti “fredde” (eccesso di blu, che comunque corrisponde ad un aumento della temperatura di colore) o “calde” (eccesso di rosso).

Figura 8. Curva delle coordinate cromatiche sul piano CIE Yxy di un corpo nero a temperature comprese tra 1.000 e 10.000 gradi. I punti indicati con una “D” corrispondono alle posizioni di alcuni illuminanti standard.

Figura 8. Curva delle coordinate cromatiche sul piano CIE Yxy di un corpo nero a temperature comprese tra 1.000 e 10.000 gradi. I punti indicati con una “D” corrispondono alle posizioni di alcuni illuminanti standard.

Prime conclusioni

Televisori e videoproiettori, così come in pratica tutti i dispositivi per la riproduzione delle immagini fino ad oggi sviluppati, possono riprodurre solo una gamma limitata di colori e di intensità luminose, ma nei limiti che la tecnologia gli assegna devono comportarsi in modo lineare, senza introdurre sbilanciamenti cromatici, senza restrizioni di gamut, senza alterazioni di intensità e senza difformità comportamentali rispetto alla superficie coperta. Ed è in questa direzione che il nostro team di lavoro si sta muovendo per produrre, sin dai prossimi numeri, valutazioni quantitative anche sulle sorgenti luminose.

Figura-9

di Fabrizio Montanucci

da Digital Video n. 9 gennaio 2000

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