La percezione visiva

La volta precedente abbiamo cercato di traghettare il passaggio alla fenomenologia della percezione applicata, attraversando le problematiche legate alla misura del colore e quelle della comunicazione visiva. In questa puntata vediamo alcune applicazioni visive dirette. Cerchiamo di stimolare i recettori del nostro cervello per sottolineare quelle anomalie della percezione e della comunicazione visiva che abbracciano tutto il mondo del visivo; dalla scrittura alla pittura, dal cinema alla pubblicità, dal finito… all’infinito!

Il percorso che faremo sarà misto, tra colore e geometria. D’altronde per parlare di percezione applicata, a volte, si deve considerare l’immagine nella sua totalità e, a volte, la si deve semplificare estrapolando una determinata componente per facilitare la comprensione di un fenomeno altrimenti mimetico. Cercheremo comunque di fare un percorso progressivo.

Dal segno al simbolo

Vediamo subito alcuni esempi di “conflitto percettivo”. Nelle figure 1 e 2, tratte da un libro-ricerca “Tracce Segni Caratteri” del teutonico Martin Andersch (docente di progettazione grafica all’Istituto Superiore Professionale di Amburgo) si può notare come il gesto grafico più radicato e assimilato, quello della scrittura, possa essere incredibilmente re-interpretato con tanta credibilità. Anche quando la eco letterale è nulla. Nel guardare le immagini, anche ad una analisi più ravvicinata, non si avverte neanche la più piccola grazia alfabetica in grado di confermarci la leggibilità letterale di quel segno. Ciò che appare ideogramma, in puro riferimento Orientale, parrebbe essere in grado di soddisfare la percezione con maggiore facilità e incisività. Questo è vero solo in parte, o almeno per noi. Pur non avendo noi alcuna frequentazione con la scrittura giapponese, abbiamo comunque acquisito uno stereotipo grafico di riferimento. Ed è naturale che per noi non ci sia grossa differenza tra un ideogramma vero ed un falso… ma per l’orientale sì! Questo è uno di quei casi in cui la percezione raggiunge gradi culturali diversi (per tecnica ma non per contenuto). Lo studio di Andersch, per noi, sta alla nostra scrittura come un falso ideogramma giapponese sta a quello vero.

Figura 1 - Studi sulla scrittura e le sue relazioni percettive (da “Tracce, segni, caratteri”, Martin Andersch, Ulisse Edizioni).

Figura 1 – Studi sulla scrittura e le sue relazioni percettive (da “Tracce, segni, caratteri”, Martin Andersch, Ulisse Edizioni).

Figura 2 - Studi sulla scrittura e le sue relazioni percettive.

Figura 2 – Studi sulla scrittura e le sue relazioni percettive.

Junichiro Tanizaki, in “Libro d’ombra”, ci racconta le trasformazioni comportamentali e sociali del suo Giappone “sommerso” dall’onda occidentale. Ci fa notare come la penna Bic abbia favorito per trascrizione, non solo simbolicamente ma anche praticamente, l’affermazione veloce della cultura occidentale su quella orientale. Se avesse vinto la cultura orientale, saremmo stati costretti ad usare penne “pennello” per una nuova scrittura, nel gesto e nel segno. Per traslato questo avrebbe favorito un processo di relazione e di percezione delle cose più lento, in riflesso comportamentale alla “sola” comunicazione scritta. Quindi il segno, legato al comportamentale, contiene e promuove i prodromi dei processi culturali d’acquisizione, vuoi per le simbologie della comunicazione vuoi, più complessamente, per i contenuti più profondi del sociale.
In Africa per segnalare il pericolo del passaggio degli elefanti si pensò ad un cartello che raffigurasse il pachiderma di profilo (fig. 3). Ebbene, essendo la cultura visiva del luogo di tipo bidimensionale, gli indigeni non riuscivano assolutamente a capire quale fosse l’animale di mole cosi prestante che avesse due sole zampe, per di più corte. Il successivo segnale raffigurò l’elefante dall’alto con le quattro zampe bene in vista. Questa rappresentazione segue lo stesso processo mentale del bambino quando disegna un’automobile vista dall’alto. Per lui è impossibile che le ruote non si vedano da quella posizione, la sua cultura tecnico-narrativa è in riferimento bidimensionale, ma vuole raccontare il contenuto tridimensionale, deve descrivere, cioè, gli elementi mentali più che la realtà della visione, e allora “ruota” le ruote spiattellandole sull’asfalto.

Figura 3 - Quando i codici della narrazione visiva sono bidimensionali la rappresentazione segue logiche prettamente simboliche più che realistiche.

Figura 3 – Quando i codici della narrazione visiva sono bidimensionali la rappresentazione segue logiche prettamente simboliche più che realistiche.

Giochi percettivi

La percezione muove processi mentali più complessi quando entra in gioco la prospettiva, quando, cioè, usa lo stesso parametro della realtà.
In figura 4 è riportato uno scorcio con tre persone che sembrano crescere in modo inversamente proporzionale al senso prospettico. Ebbene, queste figure sono tutte e tre di uguale dimensione. L’effetto in crescenza troverebbe la sua giustificazione razionale e stabilizzatrice nel momento in cui riscontrasse un dato reale di riferimento: una famiglia con il padre in testa e i figli a seguire.

Figura 4 - Le tre persone sono identiche per dimensione e fattezza.

Figura 4 – Le tre persone sono identiche per dimensione e fattezza.

Ma il padre è troppo grande e questo non basterebbe a giustificare la sensazione di diversità dimensionale tra le tre figure. La causa va ricercata nello scorcio prospettico che, con la sua comunicazione di riduzione progressiva, contrasta, in modo percettivamente inaccettabile, con l’immutato rapporto dimensionale tra le figure. È un effetto puramente geometrico, parente stretto della figura 5, dove due rette uguali sembrano di diversa lunghezza essendo la loro rispettiva condizione agli estremi differente per geometria direzionale e “spinta” percettiva.

Figura 5 - Le due rette sono di uguale lunghezza.

Figura 5 – Le due rette sono di uguale lunghezza.

Quest’ultima situazione bidimensionale ci suggerisce una riflessione e ci porta alla figura 6, dove l’occhio, analizzando il contesto tridimensionale, percepisce, al contempo, la mera realtà bidimensionale della rappresentazione attraverso la presenza di due rette identiche (per dimensione e lunghezza) se considerate giacenti sullo stesso piano (quello della carta), ma, nella realtà, differenti se collocate prospetticamente su due piani diversi. La visione crea un conflitto di valutazione amplificato dall’essenza puramente geometrica e non figurativa dei due elementi di comparazione. La percezione, quindi, fluttua tra i due estremi della rappresentazione (bi e tridimensionale) quando è costretta a relazionarsi con elementi propri all’una o all’altra.

Figura 6 - Le due rette marcate sono di uguale lunghezza.

Figura 6 – Le due rette marcate sono di uguale lunghezza.

La percezione aurea

La sezione aurea è un altro elemento percettivo-matematico fondamentale nella spiegazione di equilibri percettivi diversi e in alternativa a quelli centrali (vedi riquadro con la dimostrazione grafica e analitica, fig. 22). Tutta la storia della rappresentazione si divide in due campi di costruzione: assiale e diagonale. Entrambi questi modelli possono essere organizzati in modo centrale (lapidaria) e/o in funzione di una diversa tensione detta aurea. La sezione aurea, usata per conferire tensione dinamica al contesto, è, in fondo, il corrispettivo geometrico del rosso per i colori (ne abbiamo già parlato la volta precedente).

Figura 22. Quella aurea la possiamo definire un’armonia di relazione, difficilmente percepibile se non si ripete iterativamente il processo per segmenti successivi. In figura 22 sono riportati due segmenti A e B di lunghezza pari a 1. Nel segmento A il punto di sezione ha grandezza arbitraria. Se sezioniamo successivamente il segmento più grande con lo stesso rapporto otteniamo due nuove sezioni che non hanno nessuna relazione dimensionale con le due ottenute precedentemente. Nel segmento B il punto di sezione, trovato attraverso costruzione geometrica, individua la sezione aurea. Lo stesso processo geometrico applicato al segmento successivo individua una nuova sezione in stretta relazione con il segmento unitario iniziale: il tratto B1 è uguale al tratto B2. Il valore della sezione, pari a circa 0,618 (non è un numero finito), è l’unico valore in grado di soddisfare questa reciprocità. La sezione o rapporto aureo, quindi, è quel processo che, applicato iterativamente, ci dà un’altra sezione (o valore) pari allo scarto della sezione (o valore) precedente. Tutta l’armonia naturale (e artificiale) risponde a questa legge; dalla conchiglia all’ombelico, che è il primo punto aureo del nostro corpo (ottenibile applicando il rapporto alla nostra altezza), tutto è regolato da questa semplice legge armonica.

Figura 22. Quella aurea la possiamo definire un’armonia di relazione, difficilmente percepibile se non si ripete iterativamente il processo per segmenti successivi. In figura 22 sono riportati due segmenti A e B di lunghezza pari a 1. Nel segmento A il punto di sezione ha grandezza arbitraria. Se sezioniamo successivamente il segmento più grande con lo stesso rapporto otteniamo due nuove sezioni che non hanno nessuna relazione dimensionale con le due ottenute precedentemente. Nel segmento B il punto di sezione, trovato attraverso costruzione geometrica, individua la sezione aurea. Lo stesso processo geometrico applicato al segmento successivo individua una nuova sezione in stretta relazione con il segmento unitario iniziale: il tratto B1 è uguale al tratto B2. Il valore della sezione, pari a circa 0,618 (non è un numero finito), è l’unico valore in grado di soddisfare questa reciprocità. La sezione o rapporto aureo, quindi, è quel processo che, applicato iterativamente, ci dà un’altra sezione (o valore) pari allo scarto della sezione (o valore) precedente. Tutta l’armonia naturale (e artificiale) risponde a questa legge; dalla conchiglia all’ombelico, che è il primo punto aureo del nostro corpo (ottenibile applicando il rapporto alla nostra altezza), tutto è regolato da questa semplice legge armonica.

Al di là delle dimostrazioni matematiche possiamo vedere la sezione aurea come quel punto in grado di sezionare una retta in due segmenti di differente lunghezza e in perfetta armonia tra loro. Questa condizione appare alquanto paradossale, essendo in genere l’armonia associata a due parti uguali. La condizione armonica consueta, quella centrale o speculare, infatti, è in grado di comunicare autonomamente il proprio equilibrio, essendo questo legato al perfetto bilanciamento tra le parti e quindi ad una percezione biunivoca e istantanea. Centralità e asimmetria sono i cardini attorno ai quali ruota tutto il linguaggio della percezione visiva (e per traslato anche gli altri linguaggi). Inoltre la condizione scalare della sezione aurea è in stretta relazione con le implicazioni percettive della prospettiva e, in chiave numerica, con le proiezioni assonometriche (proiezione con punto di fuga all’infinito). Quest’ultime rispondono a leggi geometrico-numeriche che ne regolano le giuste percezioni e, in casi particolari, anche le false percezioni. Maestro in questo è M.C. Escher.

Escher e de Chirico

M.C. Escher è il maestro nello studio delle deformazioni prospettiche e assonometriche. In figura 7 una sua opera rappresenta un castello con la “Scala senza fine”, ottenuta raccordando le estremità della scala su due piani con giaciture differenti (fig. 8).

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Figura 7 - M. C. Escher (1952).

Figura 7 – M. C. Escher (1952).

Figura 8 - Schema del “trucco” assonometrico usato da Escher.

Figura 8 – Schema del “trucco” assonometrico usato da Escher.

L’occhio è ovviamente tratto in inganno prima che scorga l’arcano; tutto appare normale! Anche de Chirico ha fatto uso di espedienti prospettico-formali e cromatici (più avanti vedremo la relazione tra profondità e colore) per conferire tensione e surrealismo alle sue rappresentazioni metafisiche. In figura 9 si può vedere una delle “Piazze d’Italia”. La rilettura della matrice prospettica evidenzia la costruzione a fughe multiple dello scenario distorto.

Figura 9 - G. de Chirico, “Piazze d’Italia” (1960).

Figura 9 – G. de Chirico, “Piazze d’Italia” (1960).

Il processo di apprendimento prospettico

Per comprendere meglio quale sia stato il processo tecnico-mentale di apprendimento delle regole prospettiche può essere utile fare un breve excursus storico. La suggestione di due immagini ci può aiutare nel tracciare un parallelo tra storia e attualità rallentando un percorso altrimenti troppo istantaneo. La prospettiva scientifica trova la codificazione scientifico-geometrica, in piena coscienza, già agli albori del rinascimento. I primi tentativi di restituzione prospettica cosciente, con le fughe convergenti su punti appartenenti tutti ad una stessa retta o piano (invece che convergenti su di un unico punto), li troviamo già a Roma (fig. 10).

Figura 10 - Frammento di pittura murale con decorazioni a stucco. Boscoreale, I secolo d. C., Napoli, Museo.

Figura 10 – Frammento di pittura murale con decorazioni a stucco. Boscoreale, I secolo d. C., Napoli, Museo.

Condizione tecnica analoga la ritroviamo, molto tempo dopo, nel XIII secolo (fig. 11) a Siena.

Figura 11 - Duccio di Buoninsegna, La cena, dall’Altar maggiore, 1301-1308, Siena, Museo dell’Opera del Duomo.

Figura 11 – Duccio di Buoninsegna, La cena, dall’Altar maggiore, 1301-1308, Siena, Museo dell’Opera del Duomo.

Guardando questi momenti figurativi possiamo comprendere meglio il processo storico di apprendimento del visivo, associandolo a quello che tutti noi percorriamo dall’infanzia alla maturità. Le nostre suggestioni visive sono sempre tridimensionali, ma il processo mentale di trasferimento geometrico-grafico elabora decodifiche sempre più complesse proporzionalmente con l’esperienza. Ma un conto è la percezione dei fatti, un conto è la descrizione scientifica degli stessi. Perciò, nel passato, anche il più remoto, pur non riuscendo a trovare quale legge regolasse la riduzione delle cose all’aumentare della distanza, avevano già percepito intellettualmente i fondamenti percettivi della terza dimensione. Basti pensare alle correzioni apportate dai Greci alla trabeazione dei loro templi per correggere la deformazione lenticolare prodotta dal nostro occhio (fig. 12).

Figura 12 - Deformazione lenticolare prodotta dal nostro occhio; fenomeno già osservato dai greci che costruivano con una leggera depressione centrale la trabeazione dei loro templi per contenerne la deformazione ottica.

Figura 12 – Deformazione lenticolare prodotta dal nostro occhio; fenomeno già osservato dai greci che costruivano con una leggera depressione centrale la trabeazione dei loro templi per contenerne la deformazione ottica.

L’azione del disegnare è, quindi, un processo dove l’educazione del gesto passa per acquisizioni successive molto complesse, sollecitate dalla necessità di codificare gli stimoli prodotti dalla coscienza intellettuale. Quindi, l’uomo, prima di conoscere scientemente la prospettiva, pur dipingendo la realtà attraverso le limitazioni tecniche della rappresentazione bidimensionale, raccontava comunque le emozioni dovute alla tridimensionalità e quindi alla realtà. La sua sensibilità visiva era la stessa di oggi, un po’ come la sensibilità filosofica di oggi è la stessa dell’epoca di Seneca. Ciò che cambia è il rapporto divulgativo e la specifica applicazione, ma i fondamenti sono sempre gli stessi, essendo le implicazioni psicologiche primarie dei sensi rimaste sempre le stesse. Già nella preistoria i graffiti rappresentavano momenti di caccia con gli animali in dimensione scalare tra di loro.
Un altro fenomeno interessante della prospettiva è la possibilità di apportare una particolare deformazione all’immagine applicando un processo di ingrandimento ad una sola delle due direzioni (verticale o orizzontale, fig. 13) rendendola riconoscibile solo attraverso una precisa angolazione visiva. Questo processo, chiamato anamorfismo, era largamente usato nel ‘600 ed era una delle massime espressioni di virtuosismo figurativo usato per celare (in un processo di comunicazione subliminale ante litteram) informazioni “criptate” visibili solo con specchi, lenti o di scorcio. Oggi la computer grafica banalizza le difficoltà tecniche per ottenere queste deformazioni permettendo di “stirare” le immagini all’istante. La difficoltà tecnica è superata ma la magia comunicativa di questo effetto è ancora intatta e inalterata nel tempo; provare per credere.

Figura 13 - Un’anamorfosi del ritratto di Edoardo VI (1546): in questo caso l’anamorfosi veniva corretta guardando di scorcio il ritratto.

Figura 13 – Un’anamorfosi del ritratto di Edoardo VI (1546): in questo caso l’anamorfosi veniva corretta guardando di scorcio il ritratto.

Lo zoom

Un altro effetto percettivo particolare in chiave prospettica è la sensazione di appiattimento dell’immagine prodotta dallo zoom fotografico. Questa particolare condizione percettiva è dovuta prevalentemente a due aspetti: alla distanza del punto di vista e all’angolo d’incidenza dei raggi luminosi (in questa sede trascuriamo gli effetti dovuti alle lenti fotografiche; aspetto importante ma secondario rispetto al fenomeno ottico puro). Il primo aspetto vuole che all’aumentare della distanza, fissato un punto di vista, la deformazione prospettica diminuisca. L’immagine che lo zoom ci riporta è infatti ravvicinata, ma il punto di vista continua ad essere fisicamente quello stanziale dell’osservatore (fig. 14a-b-c).

Figura 14 - Lo zoom fotografico: è un processo di ingrandimento dove le deformazioni prospettiche rimangono vincolate al punto di vista dell’osservatore. a) Visione prospettica dal basso, quindi prossima all’edificio. b) Visione da una distanza maggiore (altezza del punto di vista identica alla precedente). Nel riquadro celeste il “taglio” dello zoom successivo (c). d) e) Ingrandimento della porzione relativa al riquadro: le deformazioni prospettiche sono le stesse dell’immagine precedente. La visione risulta appiattita, quindi innaturale, essendo la deformazione percettivamente impropria a questa distanza (il riferimento naturale è la fig. a).

Figura 14 – Lo zoom fotografico: è un processo di ingrandimento dove le deformazioni prospettiche rimangono vincolate al punto di vista dell’osservatore.
a) Visione prospettica dal basso, quindi prossima all’edificio. b) Visione da una distanza maggiore (altezza del punto di vista identica alla precedente).
Nel riquadro celeste il “taglio” dello zoom successivo (c).
d) e) Ingrandimento della porzione relativa al riquadro: le deformazioni prospettiche sono le stesse dell’immagine precedente. La visione risulta appiattita, quindi innaturale, essendo la deformazione percettivamente impropria a questa distanza (il riferimento naturale è la fig. a).

Questo aspetto è responsabile di una percezione geometrica prossima alla visione ideale, di prospetto, condizione prospettica limite per la quale si pensa il punto di fuga posto all’infinito. Nella visione di prospetto (senza alcuna deformazione), infatti, si perde la percezione della distanza in profondità tra le cose. I raggi luminosi riflessi (in modo direttamente proporzionale all’aumentare della ruvidezza della superficie), attraverso il differente angolo d’incidenza, esaltano e comunicano prospettiva e profondità tra i piani. Questa sensazione diminuisce quando i raggi, all’aumentare della distanza, (sempre rispetto ad un dato punto di vista) tendono al parallelismo (fig. 14d-e). Inoltre diminuisce il loro angolo d’incidenza rispetto all’osservatore e aumenta la percezione “di prospetto” della superficie riducendo la sensazione delle rugosità e la conseguente sensazione prospettica legata al particolato del piano. Questo produce una percezione delle colorazioni e del particolato superficiale più uniforme. Entrambi, mancando evidenti deformazioni della forma e passaggi di chiaro/scuro, concorrono alla diminuzione della percezione della profondità. Per noi la visione prospettica ravvicinata non è naturalmente possibile (non possiamo “zoommare”) e questo aumenta il senso di stupore o disagio percettivo. Durante le regate di Luna Rossa quante volte avete visto le barche appaiate per poi scoprire, nella visione dall’alto, un mare di distanza tra loro?
Un camion (o un treno) avanza implacabile verso di noi e sta per investire un uomo / cambio-immagine / il camion, poi, visto lateralmente, sfreccia ravvicinato sul… fragore dell’investimento! È una delle scene più frequenti nei film d’azione. Tutto è estremamente realistico e coinvolgente, il camion è lì per investirlo e lo investe, ma non abbiamo mai visto il momento esatto dell’impatto… Abbiamo visto tutto tranne quel millesimo di secondo (meno male!). Quel­l’istante sarà la nostra fantasia percettiva a ricostruirlo e tutto grazie allo zoom. In realtà il camion nella scena iniziale, quando avanza verso di noi, è distante diverse decine di metri dalla imminente vittima e almeno 200-300 metri dalla cinepresa (punto di vista).
Tali aspetti sono anche alla base delle foto in cui la luna appare di una grandezza insolita al cospetto di un’altra grandezza. Questo accade poiché la distanza della luna è tale che la massima variazione possibile della distanza di osservazione (terrestre ovviamente) non evidenzierà alcuna differenza dimensionale apprezzabile. La luna, quindi, può essere considerata come costante dimensionale (a parte i fenomeni legati alla sua rivoluzione comunque esterni a questa analisi), mentre l’edificio, al suo cospetto, per quanto detto più sopra, varierà la sua dimensione percettiva in modo consistente al variare della distanza del punto di vista. È una sorta di elastico percettivo tra profondità e distanza del punto di vista.

La mutazione del colore e le tolleranze della retina

La percezione del colore muta in funzione degli altri colori circostanti, o in rapporto a quantità e tipo di luce. Diminuendo l’intensità della luce i colori indeboliscono e tendono verso l’azzurro cupo (l’azzurro si fa più intenso e il rosso si oscura), mentre aumentandola tendono verso il giallo-arancio (fenomeno di Purkjne). Altre variazioni dipendono dalla qualità della luce, ovvero dallo spettro cromatico di quest’ultima. Un quadro dipinto alla luce naturale (bianca) risulterà alterato sotto la luce artificiale essendo questa, in genere, deficiente di raggi azzurri e prossimi all’azzurro. Se si accostano due colori di tonalità diversa, se ne aumenta la diversità; ciascuno di essi tenderà più o meno ad apparire come fosse mescolato al complementare dell’altro (contrasto di tono). Se hanno lo stesso grado di luminosità ciascuno aumenterà in purezza e forza; se la luminosità è differente il meno luminoso lo diverrà ancor meno (contrasto di valore). Questa legge enunciata da Chevreul, ma già intuita da Leonardo, si chiama contrasto simultaneo. Per essa un grigio neutro in un campo colorato tenderà verso il tono complementare del campo stesso. Per i toni della stessa gamma, il contrasto aumenta in tono e in valore l’intensità del più saturo e viceversa. In virtù del contrasto successivo, se guardiamo intensamente una immagine colorata e volgiamo poi l’occhio sopra un fondo bianco, la vediamo su di esso colorata nel complementare.
Lo stesso effetto è visibile anche in B/N. In figura 15 la griglia di quadrati neri produce negli incroci la sensazione di un punto nero. È lo stesso processo fisico-mentale che permette di ricucire eventuali parti grafiche mancanti (fig. 16).

Figura 15 - La fitta griglia di quadrati neri produce negli incroci la sensazione di un punto nero.

Figura 15 – La fitta griglia di quadrati neri produce negli incroci la sensazione di un punto nero.

Figura 16 - Il processo mentale tende a ricostruire l’immagine nella direzione più logica, ricucendo percettivamente i buchi e le mancanze riscontrate durante la narrazione visiva.

Figura 16 – Il processo mentale tende a ricostruire l’immagine nella direzione più logica, ricucendo percettivamente i buchi e le mancanze riscontrate durante la narrazione visiva.

La denominazione dei colori è estremamente ampia, ma se osserviamo la terminologia base scopriamo un’altra indicazione in ambito percettivo. Tutte le variazioni di maggiore o minore intensità dei colori lasciano inalterato il nome del colore seguito dalla semplice aggiunta della definizione chiaro o scuro. Uno solo, il blu, quando schiarisce, in modo consistente, diventa azzurro e non blu chiaro. Questa semplice annotazione sottolinea la particolare percezione di questa banda spettrale (compresa tra 4400-5000 angstrom circa). Estremamente difficile è definire il giro di boa tra le due percezioni. Quante volte avrete sentito definire blu un colore che a voi pareva azzurro?
La nostra percezione ha un preciso limite di definizione, sia nel rilevamento dei particolari che nelle oscillazioni luminose. Tale limite ci permette, ad esempio, di percepire come uniforme un’immagine (scandita e/o stampata) entro il minimo dei 200 dpi (fig. 17).

Figura 17 - L’ultima eclisse solare stampata a 200 dpi: è il limite di percezione dei pixel, il particolare ingrandito mostra la matrice grafica dell’immagine.

Figura 17 – L’ultima eclisse solare stampata a 200 dpi: è il limite di percezione dei pixel, il particolare ingrandito mostra la matrice grafica dell’immagine.

Al di sopra di questo valore (fino a 300 dpi) percepiamo un miglioramento della qualità d’insieme senza individuare fisicamente l’incremento. È la stessa cosa che avviene in acustica; il limite di udibilità di un ascoltatore medio è posto a circa 15000 Hz, ma la restituzione fino a 20000 Hz, per quanto appaia qualitativamente inutile, contribuisce alla ricostruzione della scena sonora esaltando elementi propri alla sfera psicologica e aumentando il senso di realismo della diffusione acustica. Questi fenomeni ottici sono stati ampiamente studiati negli anni ‘60 e ’70, dove hanno trovato divertenti applicazioni in campo cinematografico. Il cinema in 3D operava sulla capacità del cervello di rifasare la percezione (monoculare-monocromatica) proiettando uno stesso fotogramma, in rosso e in verde, leggermente sfalsato attraverso due lenti, sempre una rossa e una verde. Queste permettevano ai recettori di attuare una sintesi additiva dell’immagine ottenendo una vista in 3 dimensioni. Il processo fu scoperto già nel 1838 da sir Charles Wheatstone, che inventò lo stereoscopio che creava l’illusione della profondità riprendendo un’immagine leggermente spostata per ciascun occhio. L’occhio percepiva entrambe le immagini mettendo in atto un processo di sovrimpressione mentale in grado di farne una sola; il processo era favorito da una schermatura che limitava la visione di una sola immagine per ciascun occhio (fig. 18).

Figura 18 - Lo stereoscopio di sir Charles Wheatstone (1838).

Figura 18 – Lo stereoscopio di sir Charles Wheatstone (1838).

La percezione dell’astratto

Un quadro astratto spesso produce disagio cognitivo. Prendiamo per esempio un quadro di Wassily Kandinsky (fig. 19).

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Figura 19 - W. Kandinsky: le due immagini sono tratte dal libro “Punto Linea Superficie” di W. Kandinsky, ed. Biblioteca Adelphi 16. Scritto nel 1925, è un libro fondamentale ed estremamente piacevole per capire il linguaggio della rappresentazione bidimensionale. a) struttura orizzontale-verticale con diagonale contrapposta e tensioni del punto (schema del quadro “Comunicazione intima” 1925);  b) struttura lineare del quadro “Piccolo sogno in rosso”. La sensazione del colore è ottenuta per tensione diagonale e direzionale in associazione geometrica con la qualità psicologica del rosso, stimolatore primo e particolare dei recettori ottici.

Figura 19 – W. Kandinsky: le due immagini sono tratte dal libro “Punto Linea Superficie” di W. Kandinsky, ed. Biblioteca Adelphi 16. Scritto nel 1925, è un libro fondamentale ed estremamente piacevole per capire il linguaggio della rappresentazione bidimensionale. (sopra) struttura orizzontale-verticale con diagonale contrapposta e tensioni del punto (schema del quadro “Comunicazione intima” 1925); sotto) struttura lineare del quadro “Piccolo sogno in rosso”. La sensazione del colore è ottenuta per tensione diagonale e direzionale in associazione geometrica con la qualità psicologica del rosso, stimolatore primo e particolare dei recettori ottici.

La nostra percezione viene destabilizzata da tanta semplicità geometrica e dalla difficoltà di relazionarla con un dato figurativo di riferimento (processo mentale principale della percezione). Per entrare in sintonia con quel gesto pittorico dobbiamo fare un passo indietro e trovare l’immagine di riferimento. In figura 20 è riportata la rilettura simbolica di un ginnasta in azione. Il processo percettivo figurato in questa immagine è molto evidente e l’esperienza pittorica di Kandinsky, come gran parte dell’astrazione, ha percorso destrutturazioni formali di questo tipo. Gli aspetti geometrici possono essere associati ad azioni e suoni. Ad un punto corrisponderà un dato percussivo e quindi, forza, pressione e rumore. In questo senso l’astrazione viene meno e la nostra percezione comincia a percepire, quando non trova il riferimento figurativo, pesi, tensioni ed emozioni. La destrutturazione-codificazione grammaticale delle geometrie favorisce la comprensione di un linguaggio comune a tutta la storia del visivo e, quindi, dell’arte. Stiamo parlando, ovviamente, di processi generali e non particolari.

Figura 20 - Un salto della danzatrice Palucca e schema grafico del salto.

Figura 20 – Un salto della danzatrice Palucca e schema grafico del salto.

La percezione legalizzata

Oggi lo studio e la definizione dei parametri della percezione visiva non solo sono entrati nel tessuto sociale, ma hanno trovato applicazione anche in precise norme legislative. È il caso della segnaletica di sicurezza in ambito di lavoro e di cantiere (D.lgs 626/94, D.lgs 494/96 e bis) dove la legislazione vigente regola e definisce i parametri, psicologici e metrici, per calibrare il giusto grado di comunicazione. La prescrizione di legge definisce vari punti. La larghezza dei cartelli di sicurezza deve essere in funzione del punto di vista più sfavorevole. Ad esempio a 20 m di distanza il cartello dovrà avere una larghezza di 0,45 m, a 50 m di 1,12 m (Area = L2/2000). Il colore di segnalazione del pericolo deve essere rosso, quello delle vie di uscita, in associazione con il semaforo, deve essere il rassicurante verde. Le segnalazioni acustiche devono essere accompagnate anche da segnalazione visiva luminosa. Inoltre la legge regola un altro aspetto fondamentale della percezione visiva: la segnaletica dovrà essere semplice e sintetica.
L’iper-informazione produce indifferenza da parte dei recettori al pari della tabula rasa. È quello che può essere definito come effetto bacheca. Ognuno affigge la propria comunicazione cercando di differenziarla esteticamente dalle altre favorendo una immagine d’insieme caotica, il cui livello percettivo del particolare è più basso perché uniformemente distribuito. Eppure, in quel caos, qualcuno emerge! Tra le tante pubblicità qualcuna stimola con maggiore incisività la nostra percezione. È allora che entra in gioco la personalità di comunicazione, superando la codificazione del linguaggio e affermandosi per emozioni nuove. In entrambi i casi si usano gli strumenti della percezione, ma con forza suggestiva differente. Questo, in genere, non è legato alle differenti potenzialità tecniche tra le parti, bensì alla differente capacità alchemica nel miscelarle con gli ingredienti della comunicazione.
Della percezione fanno parte anche aspetti espressamente psicologici. Basti pensare al conflitto tra grandezza morale e materiale che ci porta ad immaginare la “Gioconda” molto più grande di quanto sia realmente, o a “Guernica” di Picasso (fig. 21), che ci appare come una foto virata per tonalità di marroni come fosse antica. Questo è il risultato di una percezione dell’arte per riproduzione, per tramite, e non per visione diretta. È giocoforza che la percezione attribuisca al non conosciuto dati ottenuti per proiezione del proprio inconscio logico. Chissà se l’infinito nasconde qualche particolare effetto percettivo? Una cosa è certa; l’universo non ha un verso!

Figura 21 - P. Picasso, “Guernica”: il quadro è realmente come ci appare nella riproduzione, non è una riproduzione virata in seppia. È monocromatico per tonalità di marroni.

Figura 21 – P. Picasso, “Guernica”: il quadro è realmente come ci appare nella riproduzione, non è una riproduzione virata in seppia. È monocromatico per tonalità di marroni.

di Marco Valerio Masci

da Digital Video n. 11 marzo 2000

Figura 23 - “Gufo” di Karin Weber: la figura è realizzata a tampone con colori alla caseina; i particolari delle penne, e altro, sono riportati con pennelli molto fini. Il lavoro procede progressivamente dai colori scuri verso quelli più chiari.

Figura 23 – “Gufo” di Karin Weber: la figura è realizzata a tampone con colori alla caseina; i particolari delle penne, e altro, sono riportati con pennelli molto fini. Il lavoro procede progressivamente dai colori scuri verso quelli più chiari.

Figura 24 - Nastri blu-azzurro: i differenti colori al contorno cambiano la percezione della sfumatura blu-azzurro. Il giallo addirittura sembra ridurre la lunghezza del nastro rispetto agli altri. Questo è dovuto anche al fenomeno di Purkyne, essendo il giallo un simulatore percettivo degli apporti prodotti dalla luce.

Figura 24 – Nastri blu-azzurro: i differenti colori al contorno cambiano la percezione della sfumatura blu-azzurro. Il giallo addirittura sembra ridurre la lunghezza del nastro rispetto agli altri. Questo è dovuto anche al fenomeno di Purkyne, essendo il giallo un simulatore percettivo degli apporti prodotti dalla luce.

Figura 25 - La computer grafica oggi ci permette di capire meglio i fenomeni percettivo-cromatici, potendo dosare percentuali e intensità dei colori con una precisione fino a qualche anno fa impossibile. Il confronto digitale e analogico tra le due immagini (relative alla misurazione del “peso” percettivo di relazione tra i colori) mostra impietosamente le notevoli differenze tra le due modalità tecniche di rappresentazione.

Figura 25 – La computer grafica oggi ci permette di capire meglio i fenomeni percettivo-cromatici, potendo dosare percentuali e intensità dei colori con una precisione fino a qualche anno fa impossibile. Il confronto digitale e analogico tra le due immagini (relative alla misurazione del “peso” percettivo di relazione tra i colori) mostra impietosamente le notevoli differenze tra le due modalità tecniche di rappresentazione.

Figura 26 - Alcuni esempi di conflitto percettivo.

Figura 26 – Alcuni esempi di conflitto percettivo.

Figura 27 - L’universo potrebbe essere un grande inganno della percezione… sicuramente non ha un verso! La foto è relativa alla più bella nebulosa galattica del cielo invernale, M42 in Orione.

Figura 27 – L’universo potrebbe essere un grande inganno della percezione… sicuramente non ha un verso!
La foto è relativa alla più bella nebulosa galattica del cielo invernale, M42 in Orione.


Le immagini sono state tratte da:
• R. De Rubertis, “Progetto e percezione”, Officina Edizioni
• W. Kandinsky, “Punto linea superficie”, Biblioteca Adelphi 16
• E. Panofsky, “La prospettiva come forma simbolica”, Feltrinelli
• G. H. Magnus, “Manuale del grafico”, Longanesi & C.
• C. W. Ceram, “Archeologia e Cinema”, Mondatori


 

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