Didattica dell’immagine… ovvero Kubrick

…vedere osservando

Proseguendo la relazione tra cinema e pittura (“Cinema e Pittura”; Digital Video n. 75), indaghiamo quella che può essere ritenuta una delle comunicazioni visive più significative: il cinema di Stanley Kubrick. Breve esortazione e imperativa premessa: chi non ha visto i film di Kubrick, o ne ha visti pochi, o manca solo di uno, non può vivere con questa assenza… provveda al più presto, magari (ne sarei onorato) incentivato dalle parole che seguiranno. Sia chiaro, la stessa invettiva vorrebbe investire anche altri grandi registi, ma la cinematografia di Kubrick è talmente equilibrata e partecipata nella redistribuzione/organizzazione di tutte le componenti filmiche (immagine, parola, musica) da acquistare anche un elevato valore didattico utile alla comprensione di gran parte degli articolati che regolano l’ampio rapporto tra percezione e comunicazione visiva. Ed è proprio ciò che indagheremo in questa breve trattazione verticale sul regista. L’intento è quello di farvi osservare ciò che vedrete e/o che avete già visto e che avete sempre avuto davanti gli occhi ma che non avete mai… “osservato”. Bene, entriamo subito in gioco. C’è molta differenza tra vedere ed osservare. Vedere serve a deambulare, osservare serve a pensare. Se osserviamo la strada mentre guidiamo andremo certamente a sbattere! … meglio attivare la funzione della visione e proseguire senza pericolo di distrazioni. Con l’osservazione, osservando i film evitando di vederli come se steste guidando, dedicando particolare attenzione alla comunicazione delle immagini, potreste decidere di rivedere molti film e scoprire che forse non li avete mai “visti!”. Nell’osservarli vi sembrerà di “vederli” per la prima volta… In tutto ciò il nostro percorso non descriverà aspetti di base, già consolidati, della cinematografia kubrickiana (in calce è presente un’ampia bibliografia), traccerà un itinerario complementare, a volte alternativo, sicuramente molto visivo.

La luce dell’immagine

Un film, per essere ritenuto visivo (“2001: Odissea nello Spazio” è stato definito esperienza visiva) deve fondare la sua portanza comunicativa sulla prevalenza del linguaggio visivo. Le immagini potrebbero e dovrebbero comunicare senza essere necessariamente affiancate dalla parola. Molto spesso la parola è usata in modo ridondante e ripete quanto già espresso dalle immagini; questo accade per la scarsa attitudine sociale alla lettura dell’immagine e per il prevalente taglio letterale di molti film, consci che la comunicazione sociale prevalente è quella verbale (in chiave comunicativa siamo in pieno analfabetismo visivo1). Per chiarire subito luoghi e contorni del contendere, ritengo che un film, per essere compreso a pieno, andrebbe visto almeno tre volte, se non quattro. La prima volta per seguire soprattutto la trama, il contenuto verbale. La seconda e la terza per indagare l’immagine e la musica. La quarta, auspicabile, per riassaporare all’unisono il tutto individuando prevalenze, portanze e interscambi tra le tre componenti comunicative principali. Tale considerazione nasce dal fatto che il rilevamento cosciente dei sensi si attiva alternativamente; seguendo la musica non è possibile seguire criticamente il parlato, allo stesso modo se osserviamo l’immagine non è possibile analizzare la musica2). Il cinema è, quindi, evento comunicativo visivo e globale; immagine, musica e parlato si scambiano e si interlacciano piani, percezioni e comunicazioni.

L’osservazione filmica

Il cinema è prevalentemente visione. Concordo con il grande regista Pasquale Squitieri3 quando dice che “il cinema è immagine, è visione; parole e suoni lo affiancano qualificandolo e caratterizzandolo. Michelangelo Antonioni, insieme ad altri, ha anticipato la forma visiva, mutuandola dal cinema orientale, cinese e giapponese, formando quel cinema che comunica principalmente per immagini, quel cinema il cui progetto nasce dall’immaginazione dell’immagine visiva”. Altri, anzi, molti film nascono da stimoli letterari. Si può visualizzare un’opera letteraria come, allo stesso modo, è possibile musicare una poesia, ma i linguaggi non si scambiano gli artifici, non c’è equivalenza diretta; senza un’opera di adeguamento linguistico il flop comunicativo è logica conseguenza. Non esiste opera visiva quale perfetta equivalenza delle sensazioni offerte da un testo letterario (e viceversa), mentre esiste lo stimolo letterario quale promotore di altre autonomie comunicative, a sé stanti e/o complementari (e viceversa). L’immagine non dovrebbe usare gli stessi artifici linguistici della parola, quando questo accade diventa didascalica e ridondante non aggiungendo molto di più al contenuto manifesto della parola; oggi, gran parte della filmografia contemporanea è “didascalica” nell’immagine (e “minimalista” nel contenuto verbale, anche quest’ultima rappresenta una scelta non un limite di comunicazione). L’immaginazione visiva, stimolata dalla lettura di un testo letterario, muove in direzione di attribuzioni e materializzazioni vitalizzate dall’immaterialità della parola che dice e non dice, particolareggia e generalizza, agevola e contrasta il processo “magico” di fisicizzazione personale e individuale. È quello che, parafrasando la definizione della corrente pittorica della “Scuola Romana”, possiamo definire come realismo magico. Ma il realismo magico, che scaturisce dalla parola e approda nell’immaginario del lettore, può essere completamente deluso qualora si cercasse di trovare il corrispettivo materiale, la fisicizzazione di quelle parole. Il concetto è evidente nei luoghi dove l’immaginazione si esalta; ad esempio nell’ambito fantastico e/o fantascientifico (alchimia di realismi per sommatorie, sottrazioni, divisioni e moltiplicazioni di parti, di interi, di particolari, di generali, ecc…). L’immagine da evocare si indebolisce quando vive per eccesso di verbalizzazione; la parola evoca tanto di più l’immagine quanto più è sintetica. L’attribuzione visuale della verbalizzazione passa necessariamente per attribuzioni che esistono soprattutto per deduzioni e percezioni assolutamente personali. Narrare, descrivere, motivare troppo il “non spiegabile” inevitabilmente porta il processo di acquisizione/decodifica nella banalizzazione. Paradigmatico è il film “2001: Odissea nello Spazio” che, pur essendo stato ispirato dal racconto “La Sentinella” di Arthur C. Clarke, non cerca di visualizzare quanto scritto nel testo, poiché il linguaggio verbale muove artifici “emozionali” che nel visivo non sarebbero utili e, al contempo, cerca di sfuggire il più possibile dalla particolarizzazione del non-conosciuto, dall’iper-narrazione del mai-visto; l’entità superiore di “2001” è un monolito (ne “La Sentinella” è una piramide) e non si dice che tipo di entità sia, potrebbe essere Dio, un altro essere o altro indefinibile, ognuno vede quello che ritiene più credibile in funzione delle sue esperienze visive e delle sue proiezioni mentali, colmando gli “intervalli delle assenze di comunicazione e delle ridondanze verbali” stimolando le proprie personali attribuzioni logiche. La geniale intuizione del monolito è nella scelta di una non-forma, no-design, no-archetipa, no-iconografica, schermo TV, proiezione inconscia, assorbitore totale, nero, infinito, finito… tutto! La digres­sio­ne/regressione è possibile solo a fronte di uno stimolo non circostanziabile, non omologabile, in una parola, non iconografico. La piramide di Clarke è iconografia immaginifica sulla scia del mistero derivato dalla diretta connessione con l’antica cultura egizia. La leva egiziana vive sulla ricerca di una deriva visuale dello strumento verbale dove la parola deve “arricchirsi” d’immagine, al contrario, nel mondo del visivo, l’immagine “nuova”, rappresentante il non-conosciuto, per essere evocativa, potendo, non deve essere esplicita e derivabile e, soprattutto, deve svuotarsi di riferimenti archetipi (fig. 1); il monolito di Kubrick si posiziona a metà tra iconoclastia e iconografia.

Figura 1 – Il monolito di Kubrick si posiziona a metà tra iconoclastia e iconografia (2001: Odissea nello Spazio, 1968).

Il silenzio dell’immagine

Il cinema è valore sociale, è comunicazione (prim’ancora che arte4), è stimolo sensoriale che alimenta il piacere dell’osservazione, è luogo del silenzio, quindi della concentrazione. Ma il silenzio è socialmente mal accolto; i produttori di film ne leggono il dannoso risvolto economico5 in quanto produce disagio, allontana il consenso popolare, svuota la “cassetta”… il silenzio è impegnativo, porta in condivisione la propria presenza con le sole immagini. Nel silenzio il proprio respiro diventa suono… si attivano i sensi più sottili, più interiori… ed arrivano i primi colpi di tosse. Il fenomeno è tipico nei concerti di musica classica dove ad ogni pianissimo arrivano, in ordine sparso e veloci, “isterici” schiarimenti di gola misti a “impulsivi” colpi di tosse. Lucio Dalla, nel suo concerto/intervista alla sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma (giugno 2005), sul finire di Caruso (splendidamente cantata accompagnandosi con la sola tastiera) ha letteralmente cassato l’applauso nascente chiedendo di rimandarlo solo di qualche istante… <<dopo aver assaporato… il silenzio!>>. Si dice “il silenzio dopo la tempesta”. Kandinsky in “Punto, linea, superficie” scrive che il “punto” è silenzio; il “punto” conclude e prelude nuove parole, nuovi suoni. Canto, silenzio… applauso. Ma non accadrà mai; c’è sempre qualcuno che vuole applaudire per primo, per competere e superare l’ansia del consenso. Ancora all’Auditorium, alla Cavea, in entrambe le esecuzioni dell’“Aida” di Verdi, non è stato possibile apprezzare il calando musicale fino al “vero” silenzio musicale. L’applauso “apprensivo” lo ha impedito nel segno dell’impazienza, non dell’entusiasmo.

Il silenzio cinematografico è mortificato dalla stessa dinamica; la difficoltà “dell’ascolto” dell’immagine. È segno emblematico, fragoroso ed evidente dell’analfabetismo visivo in cui versa il sociale attuale che non riesce ad ascoltare l’immagine poiché non la sa “leggere”. Il sociale attuale è “colto” in chiave percettiva, quindi passiva, acquisisce il messaggio senza possibilità di elaborarlo coscientemente. In tal senso nasce il bisogno della “verbalizzazione ridondante”, conforto e conferma dell’impossibilità di una agevole lettura/traduzione dell’immagine. I momenti di silenzio sono spesso occasioni per sussurrare al distratto di turno, quanto verbalizzato pochi istanti prima. Quando sarebbero momenti utili ad assaporare la forza evocativa dell’evento antecedente e/o a percepire altro. Quando un evento è molto narrato e musicato il tempo passa veloce, quando l’evento è sola immagine senza essere affiancato da musiche ritmate e/o verbalizzazioni continue, allora, il tempo passa lento; ci si annoia poiché si capisce meno. “2001: Odissea nello Spazio” nel silenzio esalta questo aspetto e alimenta l’impazienza dell’esplicitazione verbale.

Tridimensionalità comunicativa del cinema

Il cinema è fenomeno “tridimensionale monoculare”; infatti i registi spesso usano il “monocolo” per avere un’anteprima della scena da riprendere. In ambito filmico, tra i vari criteri di indagine qualitativa, si parla di maggiore o minore tridimensionalità dell’immagine e deve essere chiaro che questa sensazione può essere solo ideale e non reale. La videoproiezione è bidimensionale (tralasciamo la proiezione 3d acquisita con due cineprese), quindi è percettivamente “monoculare”. La variazione di acquisizione angolare tra i due occhi elabora due informazioni differenti ma pur sempre piane, condizione che non permette di elaborare alcun senso di reale profondità, fondato sul processo di triangolazione oculare che permette di percepire il senso di prospettiva e tridimensionalità. La sensazione di tridimensionalità cinematografica viene amplificata dall’incremento della risoluzione dell’immagine; chi ha potuto apprezzare l’alta definizione (HD) avrà individuato nella tridimensionalità il miglioramento percettivo più importante, avvicinando l’idea di trovarsi di fronte ad una vera “finestra sul mondo”.

L’occasione kubrickiana

Il contributo previsionale di Kubrick è altissimo. Propone modelli e comportamenti caratterizzanti le emergenze e le strutture sociali future e, di conseguenza, anche quelle finemente cinematografiche. Con “Arancia Meccanica” (1971) propone l’aggregazione violenta giovanile. Con “Lolita” (1962) sfiora il tema della pedofilia. Con “Full Metal Jacket” rilegge la guerra in chiave proporzionale e bidirezionale, all’interno dell’ambiguo rapporto intimo e viscerale tra nemici, dove la superpotenza americana (la squadra) combatte contro un solo cecchino (donna). Tema, quest’ultimo, attualissimo in stretta relazione con le dinamiche belliche odierne tra America e Iraq. Con “Rapina a Mano Armata” (1956) scopre la risolutezza e il pragmatismo applicati all’omicidio anticipando “Le Iene” e “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino. Socialmente “illuminante” quando ripropone con “Barry Lyndon” la quotidianità dell’illuminazione naturale delle finestre e la luce “notturna” delle candele. Incredibilmente in “2001: Odissea nello Spazio” durante una videochiamata (!) il padre chiede alla figlia quale regalo avrebbe voluto per il compleanno… la figlia risponde <<…il telefono!>> … meno male che non dice “telefonino”…

Il contenuto comunicativo storico/filologico è, in questo caso, sostenuto anche dalla potenzialità tecnica, che ovviamente passa in secondo piano di fronte alla consistenza della valenza comunicativa, realmente sostanziale, fondante e motivante il gesto tecnico. Bruno Munari scriveva “quando un progettista è povero di idee usa materiali molto preziosi”. È un assunto didatticamente perfetto; mai credere che per comunicare ci voglia sempre l’ultimo ritrovato (alias “prezioso”); questo è possibile pretenderlo dopo aver scandagliato molte delle possibilità comunicative offerte dagli strumenti possibili, vicini, per economia, necessità e/o contesto. Dietro un’idea comunicativa c’è sempre uno strumento; che possa essere innovativo è secondario, è di primaria importanza che l’idea sia in grado di dare vita allo strumento, obsoleto e/o innovativo che sia; quando lo strumento (inteso anche come “tecnica”) prende vita non lo si nota più. Quando vince l’esigenza di comunicazione non ci accorgiamo neanche più dello strumento, della tecnologia o delle difficoltà che hanno portato a quella data comunicazione che filerà liscia, senza fatiche involontarie. Quando percepiamo l’emergenza della tecnologia, dello strumento, la fatica che l’ha generato, vuol dire che idea e sostanza comunicativa sono basse, povere, labili. L’idea deve essere nuova, contemporanea, financo anticipatrice; è l’idea comunicativa che svecchia il mezzo espressivo, non viceversa. Se poi, tutte e due le valenze sono nuove, sia quella comunicativa che quella tecnica, allora si incontrano personaggi come Kubrick. Steven Spielberg chiese a Kubrick cosa pensasse dei suoi film; Kubrick rispose con una domanda “…qual è l’occasione cinematografica che ti spinge a girare i tuoi film?”. L’occasione è il movente per cui decidi di impegnare alcune risorse comunicative e non altre, è, in sintesi, l’opportunità (in questo caso filmica) offerta dall’idea comunicativa. Spesso nei film di Spielberg emerge prevalente la fenomenologia, l’effetto, e l’idea, l’occasione, spesso ne è sopraffatta. Dal punto di vista di Kubrick è tutto chiaro. Dal punto di vista di Spielberg il punto di vista è fenomenico, circense; è un Kubrick “pop”. È il viceversa a cui facevamo riferimento prima.

Il campo cinematografico di Kubrick, ovvero il formato dell’inquadratura (“Lo sformato cinematografico”; Digital Video n. 56), cambia sempre ed è funzione degli aspetti comunicativi connessi all’occasione filmica suddetta. Si passa dal 4:3 di “Rapina a mano armata” in linea col rapporto dell’epoca, ai vari formati di “Dottor Stranamore” determinati da esigenze economiche, al 2.35:1 di “2001: Odissea nello Spazio”, al 1.59:1 di “Barry Lyndon” per affiancare le esigenze sulle basse intensità luminose, all’improprio 4:3 di “Eyes Wide Shut” in DVD (sembra lo abbia voluto lo stesso Kubrick, decisione che prese “provocatoriamente” anche per gli altri suoi film su VHS).

Dal campo arriviamo, per estensione, al punto di vista, ovvero alle simmetrie/asimmetrie dell’immagine. Kubrick è famoso anche per la simmetria delle sue inquadrature, spesso perfettamente centrali all’oggetto/contesto da inquadrare, oggetto/contesto spesso speculare sull’asse verticale (fig. 2). La comunicazione per simmetrie esprime (attraverso l’equivalenza comunicativa dell’ortogonalità) stasi, univocità, certezza e, quindi, tranquillità (le culture totalitarie e catechizzanti si sono rappresentate con iconografie dall’impianto simmetrico e/o bidimensionale).

Figura 2 – Kubrick è famoso anche per la simmetria delle sue inquadrature, spesso perfettamente centrali all’oggetto/contesto da inquadrare, oggetto/contesto spesso speculare sull’asse verticale (Shining, 1980).

La simmetria è spesso collocata da Kubrick nelle fasi iniziali del film quando la tensione dell’evento deve ancora esplicitarsi. Piccole asimmetrie nella simmetria annunciano leggeri sbilanciamenti che preannunciano l’arrivo della tempesta (fig. 3).

Figura 3 – Piccole asimmetrie nella simmetria annunciano leggeri sbilanciamenti che preannunciano l’arrivo della tempesta (Shining, 1980).

Nell’immagine successiva (fig. 4) i due attori si dividono l’asse di simmetria, a sinistra (in fieri) la genialità della follia di Jack Nicholson, a destra (in chiusura) l’incertezza della normalità di Shelley Duvall.

Figura 4 – Qui i due attori si dividono l’asse di simmetria, a sinistra (in fieri) la genialità della follia di Jack Nicholson, a destra (in chiusura) l’incertezza della normalità di Shelley Duvall (Shining, 1980).

Poi, entrati nella fase della tensione, esplicitata la follia, le inquadrature diventano asimmetriche, diagonali, il campo diventa dinamico in linea con l’atmosfera del film (fig. 5).

Figura 5 – Poi, entrati nella fase della tensione, esplicitata la follia, le inquadrature diventano asimmetriche, diagonali, il campo diventa dinamico in linea con l’atmosfera del film (Shining, 1980).

La diagonale esprime tensione, negativa se discendente, positiva se ascendente. La diagonale non è una ed una sola (al contrario della binaria condizione dell’ortogonalità) è rappresentabile attraverso molte possibilità di inclinazione, è sinonimo di pluralismo comunicativo (le comunicazioni democratiche spesso si rappresentano in modo asimmetrico), di tensioni a vari gradi di intensità e, soprattutto, di molteplicità comunicativa e interpretativa.

Il Visual

Altra breve considerazione/indicazione. In ambito filmico la comunicazione trainante dovrebbe essere quella visiva. Eppure i film caratterizzati visivamente sono effettivamente pochi. È più facile trovare film caratterizzati dall’aspetto narrativo, verbale, financo sonoro. In quest’ultimo ambito esiste un genere specifico, il “musical”, eppure non esiste il genere “visual”… segno dell’indiretta ammissione di colpa: un film è per accezione “visual”, ma pochi lo sono veramente. Il motivo risiede, come abbiamo già accennato, nella debolezza sociale del linguaggio visivo, ultimo dopo quello musicale e verbale. In tutto ciò, un criterio per valutare in chiave visiva un film può essere quello di cercare nella memoria quante sono le immagini degne di essere ricordate. Pensando a Kubrick è possibile ricostruire mentalmente tutti i suoi film tante sono le immagini in grado di vivere autonomamente. Assemblando tutte le immagini significative dei suoi film si potrebbe costruire un “fotoromanzo d’autore”. Il concetto, per essere più chiari, può anche essere espresso in questo modo: quante sono le immagini di un film che possono diventare poster? Con un solo film di Kubrick tappezzereste casa sconfinando su tutta la facciata! Tornando al rapporto tra idea e strumento, Kubrick dispone e condiziona gli ultimi ritrovati tecnici. Li usa comunicativamente, quindi, non si fa usare dalla tecnologia. La usa, la sfrutta, esautorandone il contenuto tecnico, quando fine a se stesso, per esaltarne l’intrinseca potenzialità comunicativa intesa come unico e vero valore intellettuale. Il grande comunicatore ti fa ragionare, non ti dà soluzioni univoche, ti mette sul piatto gli elementi per mettere nella condizione il percettore di assemblarli come meglio crede in funzione delle necessità di lettura di base (grammatica e sintassi dell’immagine) e di decodifica profonda di percezioni più sottili. Kubrick fa questo. Non indugia nel pietismo che può essere un subdolo indicatore per far leva sulle sensibilità interiori, abbassare la visione razionale, per poi spostare l’indicatore in direzioni predefinite.

Nei suoi film la violenza non ricorre all’evidenza del sangue, non c’è esplicitazione sessuale, bensì sensuale, non c’è “pornografia” comunicativa. La chiave di lettura strutturale (grammaticale e sintattica) è una, la chiave di lettura comunicativa più profonda e molteplice. La vita non presenta mai visioni unilaterali; potrebbero esserlo per il singolo ma non per i singoli. La visione della vita è sempre funzione di un punto di vista… per fortuna!

Chromakubrick

Siamo nel 1971 e Kubrick propone aspetti sociali e comportamentali futuribili allora e attuali oggi. Il colore, uno dei vari elementi della comunicazione visiva, viene utilizzato con la sapienza di chi ne conosce le ampie potenzialità comunicative; “Arancia Meccanica” inizia con un campo rosso (fig. 6), è la prima immagine del film, mentre un campo nero apre “2001: Odissea nello Spazio”.

Figura 6 – Un campo rosso: l’immagine iniziale del film “Arancia Meccanica”.

Il preludio cromatico è “strategia della percezione” (Digital Video nn. 10-11, Febbraio-Marzo 2000, La percezione visiva – La percezione dei colori). In “Arancia Meccanica” stimola e anticipa la percezione della tensione per predisporre alla violenza, tema portante del film. In “2001: Odissea nello Spazio” introduce la percezione del mistero. Il nero è un “assorbitore”, non emette, non stimola l’occhio e dove c’è assenza di stimolo c’è autoattribuzione, proiezione mentale autodeterminata, immaginazione personale; la percezione interiore attivata dal “nulla” apre all’identificazione del mistero, del non conosciuto, del mai visto. Lo spazio comunicativo quando cinematografico diventa esclusivo e isolante. La visione è circoscritta dal buio, immersa nell’oscurità della sala. La cornice buia favorisce il confinamento e la concentrazione dei sensi alla sola percezione dell’evento. Sublime e paradigmatica, l’invenzione di Kubrick è “soluzione di continuità” tra spazio cinematografico e spazio dell’universo, il tutto in filologico silenzio.

Il colore, stimolazione prettamente sensoriale se pensato avulso dalla forma, attiva aspetti e percezioni inconsce, financo premonitrici.

Figura 7 – Dalla sintesi sottrattiva alla sintesi additiva, dalla gestualità pittorica all’addizione cinematografica (“Eyes Wide Shut”).

Dalla sintesi sottrattiva alla sintesi additiva, dalla gestualità pittorica all’addizione cinematografica (fig. 7); la carrellata è veloce, il quadro a volte non si vede e la sua presenza viene spesa solo per creare una “macchia” rossa (figg. 8-9).

Figura 8 – La carrellata è veloce, la comunicazione del quadro a volte non si vede e la sua presenza viene spesa solo per creare una “macchia” rossa (“Eyes Wide Shut”).

 

Figura 9 – Idem come figura 8.

In “Eyes Wide Shut” le immagini vengono spesso caratterizzate da viraggi cromatici di vari colori (fig. 10), ad indicare tensioni e contesti differenti.

Figura 10 – In “Eyes Wide Shut” le immagini vengono spesso caratterizzate da viraggi cromatici di vari colori, ad indicare tensioni e contesti differenti.

La tecnica dell’idea

Kubrick propone sin da “Rapina a mano armata” (fig. 11) la violenza esautorata dalla retorica, asciutta, senza pietismi, per arrivare all’estremizzazione massima della tematica, “la violenza come forma d’arte”; esplicita in chiave sociale l’aria drammatica, sadica e macabra delle fantasie dello scrittore americano William Burroughs.

Figura 11 – Kubrick propone sin da “Rapina a mano armata” la violenza esautorata dalla retorica, asciutta, senza pietismi, per arrivare all’estremizzazione massima della tematica, “la violenza come forma d’arte”.

La triangolazione comunicativa, letteraria, visiva e musicale, viene chiusa da David Bowie. Prima ispirato da “2001: Odissea nello Spazio” (1968), poi dai collage letterari (cut ups) dell’amico Burroughs (iniziati con “Minutes to go” con Brion Gysin, 1959) al quale dedica “Diamond Dogs” (1974). Bowie utilizza la tecnica del cut ups amanuense in “Low”, “Heroes” e “Lodger”, poi la riprende assistita da software in “Outside.1” (1995 – caldamente consigliato) dove aggiunge contenuto riprendendo la tematica di Kubrick sull’estetica dell’omicidio, ora estremizzata e contaminata dal marcescente sociale neo-gotico di Burroughs. Analogo mix tematico viene contemporaneamente visualizzato dal regista David Fincher in “Seven” (1995). Il punto di partenza in “Arancia Meccanica” è la desolazione del “contemporaneo” e il conseguente scollamento tra il sociale e le cose che lo rappresentano; moda, segno architettonico e design come unità espressive sociali, spesso non interagenti, protesi senza connessione, derive speculative ed equivoche senza sostanza delle espressioni culturali più alte; cattedrali nel deserto-discarica; dall’utopica unità di abitazione (Le Corbusier) alla cosciente devastazione del Mar Rosso tra capitelli, coralli e bottiglie di plastica. Sul piano umano, la famiglia di Alex, completamente scollata dalle vicende del figlio, rappresenta l’iconografia del modello attuale, deriva naturale dell’assenza di dialogo.

Il linguaggio di Alex utilizza un lessico “giocoso”, onomatopeico, traslato, autoreferenziale, codice identificativo del mondo delle bande giovanili (analogamente, ma con motivazioni differenti, in “Brancaleone alle crociate” si progetta l’equivalente contemporaneo del lessico medioevale).

La traduzione in italiano è, a volte, una rivisitazione del testo originale nel tentativo di mantenere le particolarità del linguaggio originale. La traduzione, quindi, in gran parte fedele, si discosta solo quando, non trovando l’equivalenza opportuna, deve necessariamente spostare la relazione da sintattico-grammaticale a fonetico-onomatopeica; ad esempio in “Arancia Meccanica” “The Durango-95 purred away (costruzione onomatopeica – gatto che fa le fusa) real horrorshow – a nice, feeling all through your guttiwuts. Soon it was trees and brothers, with real country dark. We fillied around for travelers of the night, playing hogs of the road”, diventa: “La Durango 95 filava molto karascov, con piacevoli vibrazioni trasmesse al basso intestino. Ben presto alberi e buio fratelli, vero buio di campagna” con karascov per horrorshow, dove entra in gioco anche la necessità di relazione temporale tra emissione e movimentazione dell’apparato vocale6. In “Shining” è lo stesso Kubrick a preoccuparsi dell’equivalenza del detto “all work and no play makes Jack a dull boy” (letteralmente: “Il lavoro senza svago rende Jack un triste figuro” e quindi in senso lato “Tutti hanno bisogno di evasione”; oppure, “Il lavoro senza gioia fa della vita una noia”) sostituito da una differente ma altrettanto efficace evocazione “il mattino ha l’oro in bocca”.

Kubrick è filologico (filologia intesa come punto di partenza per arrivare “all’occasione cinematografica”) e in “Barry Lyndon” il riferimento pittorico è l’elemento portante (1975). Le divise dei militari di Redmond Barry, Barry Lyndon (Ryan O’Neal), sono riferibili ai quadri di Joshua Reynolds, Lord Heathfield (1788 – fig. 12).

Figura 12 – Le divise dei militari di Redmond Barry, Barry Lyndon (Ryan O’Neal), sono riferibili ai quadri di Joshua Reynolds, Lord Heathfield (1788).

Lady Sheffield (1876), di Thomas Gainsborough, ricorda la protagonista del film, Lady Lyndon (Marisa Berenson) (fig. 13).

Figura 13 – Lady Sheffield (1876), di Thomas Gainsborough, ricorda la protagonista del film “Barry Lyndon” (1975), Lady Lyndon (Marisa Berenson).

Spesso il riferimento è reale, esiste ancora, è museale. Il museo, punto di riferimento oggettivo, materiale, permette di conoscere l’esatta conformazione degli oggetti del passato. La carrozzella è un tronetto a tre ruote (fig. 14), rimedio all’impossibilità di deambulazione causata dalla gotta.

Figura 14 – Il museo, punto di riferimento oggettivo, materiale, permette di conoscere l’esatta conformazione degli oggetti del passato (“Barry Lyndon”, 1975).

Altre volte la citazione non è solo didascalica, può essere indiretta e slegata dall’azione. Può riferirsi al contenuto della sola comunicazione fino al solo traslato emotivo per esprimere quella che è l’immagine manifesto dell’occasione cinematografica (fig. 15): chi prima di questa immagine aveva mai visto rivelata chiaramente la soluzione di continuità (da un fianco all’altro) delle righe della Zebra? Centinaia di documentari non hanno mai colto quest’opportunità…

Figura 15 – L’immagine manifesto dell’occasione cinematografica kubrickiana (2001: Odissea nello Spazio”, 1968).

In stretto riferimento con la quotidianità delle vicende davanti alla finestra raccontate dal pittore Vermeer, Kubrick gira gli interni di “Barry Lyndon” con l’illuminazione naturale delle finestre o con la luce delle candele. Il rapporto storico filologico è sostenuto dalla potenzialità tecnica. Kubrick può disporre sempre degli ultimi ritrovati tecnici. Usa e non si fa usare dalla tecnologia. La sfrutta esautorandone il contenuto tecnico fine a se stesso per esaltarne l’intrinseca potenzialità comunicativa intesa come unico e vero valore aggiunto. La pellicola ultrasensibile, unitamente ad un relativo rapporto di focale, gli permette di riprendere immagini dal basso contenuto d’intensità luminosa. Diventano, quindi, possibili i controluce, le scene al lume di candela e alla luce della finestra del film “Barry Lyndon” (fig. 16).

Figura 16 – Le attività si svolgevano prevalentemente davanti ad una finestra, unica fonte di luce durante il giorno (“Barry Lyndon”, 1975). In piccolo: Vermeer, Donna con collana di perle, 1662.

Le attività si svolgevano prevalentemente davanti ad una finestra, unica fonte di luce durante il giorno. Con la Steadicam7 diventano possibili le lunghe carrellate senza più l’ausilio di binari. La profondità del campo d’azione di ripresa diventa illimitata. Kubrick in “Shining” esalta la caratteristica della Steadicam nella lunga corsa del bambino sul triciclo lungo il corridoio dell’albergo; eppure tutto appare normale, l’idea e la costruzione comunicativa “sorpassano” la Steadicam. Nonostante Kubrick non sia stato il primo ad usare la Steadicam è il primo a regalarci una sequenza indimenticabile, simbolica e, al tempo stesso, must cinematografico delle potenzialità tecnico/comunicative interne a questo strumento.

Il riferimento, a volte, è ancora più criptico, materialmente indiretto, filologicamente diretto al contenuto sensoriale dell’oggetto; la cupola (figg.17-18).

Figura 17 – Il riferimento, a volte, è ancora più criptico, materialmente indiretto, filologicamente diretto al contenuto sensoriale dell’oggetto; la cupola. Kubrick, “2001: Odissea nello Spazio”, 1968. De Dominicis, SS. Celso e Giuliano, 1773. S. Maria della Pace, 1525.

 

Figura 18 – Kubrick, “2001: Odissea nello Spazio”, 1968. Maderno, S. Giovanni dei Fiorentini, 1616.

Intesa come portale, senso di ascendenza aperto sull’infinito, connessione assiale invisibile e punto di vista del non-conosciuto. L’aggancio materiale, in questo caso, è lieve, sussurrato dalla nervatura dell’impianto strutturale ottagonale. Dall’infinito si arriva all’occhio del mondo e sul mondo, l’occhio di HAL (fig. 19).

Figura 19 – HAL (Kubrick, “2001: Odissea nello Spazio”, 1968. S. Eligio degli Orefici, 1530).

Il concetto di quadro cinematografico viene esplicitato da queste quattro inquadrature “quadro” (fig. 20) tratte da “Barry Lyndon”. La struttura comunicativa è quadro pittorico ancor prima di essere riferimento archetipo e pittorico diretto. L’evidenza pittorica dell’immagine filmica di “Barry Lyndon” è tutta nei paesaggi.

Figura 20 – Il concetto di quadro cinematografico viene esplicitato da queste quattro inquadrature “quadro” tratte da “Barry Lyndon”.

La diagonale, in chiave linguistico-visiva, esprime tensione, dinamismo, direzione quindi, ascendenza e discendenza, a seconda dell’orientamento (in funzione del verso di lettura). Nell’immagine di figura 21 le due morti assumono drammatizzazioni opposte. Il militare “ascende” a miglior vita aprendo la possibilità di fuga di Barry.

Figura 21 – Le due morti assumono drammatizzazioni opposte (“Barry Lyndon”, 1975. Annibale Carracci, Le Tre Marie, 1580).

La diagonale sottende alla possibilità di prosecuzione cinematografica del racconto continuando ad imprimere nell’osservatore il senso di continuità attraverso il verso sinistra-destra. Barry continuerà la sua corsa portato idealmente fuori dall’incorniciato del fotogramma cinematografico. Il Cristo morto, invece, disegna una diagonale discendente che individua con i piedi il punto ideale di una fine, in quel­l’istante, terrena. È una diagonale che non prelude alla risurrezione, sottolinea il solo evento appurabile in quel momento, la morte materiale del Cristo e il dramma vissuto da Le Tre Marie.

Nel tempo i figli cinematografici di Kubrick crescono (Spielberg, Scott, Wachowski) e colpisce l’eco progettuale che sconfina nell’assonante fisionomia tra il volto di Rachel (protagonista di “Blade Runner” di Ridley Scott) e quello di Lady Lyndon (fig. 22), coincidenti anche nel contenuto evocativo del personaggio (dal comportamentale, al caratteriale, al sentimentale).

Figura 22 – L’assonante fisionomia tra il volto di Rachel (protagonista di “Blade Runner” di Ridley Scott) e quello di Lady Lyndon.

Il cinema è strumento di comunicazione veloce, spesso caratterizza i suoi personaggi secondo logiche lombrosiane (in particolare quello americano); il contenuto comunicativo del volto, l’espressione esteriore, affiancano e confermano la psicologia del personaggio. Raramente il brutto è buono.

Il riferimento archetipo retrocede fino ad evocare il segno spesso ingenuo e veloce dello “story board”, schizzo previsionale dell’immagine cinematografica, classico strumento grafico per determinare scenografie, inquadrature, e per accompagnare la lettura della sceneggiatura. Chiaro ed esplicito il riferimento allo story board nell’autocitazione di “2001: Odissea nello Spazio”, dove Bowman ritrae sul suo blocco di disegno la quotidianità dell’astronave (fig. 23).

Figura 23 – Chiaro ed esplicito il riferimento allo story board nell’autocitazione di “2001: Odissea nello Spazio”, dove Bowman ritrae sul suo blocco di disegno la quotidianità dell’astronave.

In “Eyes Wide Shut” la casa della famiglia Harford è ricca di quadri, gran parte dipinti dalla moglie di Kubrick (fig. 8). In particolare, nella penombra, nell’atmosfera bluastra della stanza della figlia, si staglia in evidenza il colorato disegno sopra il letto. Una sorta di mare mosso, rosso e blu, che dà vita ad un qualcosa di non definito, una sorta di groviglio, lo stesso che avvolgerà i protagonisti, immersi tra sogno e realtà, sopra la testa della propria figlia (fig. 7).

Il cinema è progettazione, è architettura, è design. Le scarpe, grip shoes, per camminare in assenza di gravità, vincolati al pavimento. Due nastrini legano il pantalone all’altezza della caviglia impedendogli di arrotolarsi scompostamente durante la movimentazione (fig. 24).

Figura 24 – Due nastrini legano il pantalone all’altezza della caviglia impedendogli di arrotolarsi scompostamente durante la movimentazione (2001: Odissea nello Spazio, 1968).

Il graphic-design del packaging (fig. 25) con le sue rappresentazioni alimentari, dalla calda sintesi grafica e comunicativa, in ironica contrapposizione alla “sinteticità” del contenuto.

Figura 25 – Il graphic-design del packaging con le sue rappresentazioni alimentari, dalla calda sintesi grafica e comunicativa, in ironica contrapposizione alla sinteticità del contenuto (2001: Odissea nello Spazio, 1968).

Il riferimento architettonico e antropomorfico come soluzione progettuale del futuribile, unitamente al déjà vu come paradosso del non-visto, dell’immaginario, per l’ideazione nel 1968 delle astronavi del “2001” (fig. 26).

Figura 26 – Il riferimento architettonico e antropomorfico come soluzione progettuale del futuribile; la testa, il corpo, la spina dorsale (2001: Odissea nello Spazio”, 1968).

La “trottola spaziale” ruota per generare la gravità all’interno dell’astronave e, quindi, ruota danzando a tempo di valzer. Ed infine, “2001: Odissea nello Spazio” contiene la storia de “la cicala e la formica”, in evidenza sulla visione grafico/formale dei caschi dei due protagonisti, differenziati “solo” dal colore rosso (formica) e giallo (cicala) delle loro tute spaziali (fig. 27).

Figura 27 – “2001: Odissea nello Spazio” contiene la storia de “la cicala e la formica”, in evidenza sulla visione grafico/formale dei caschi dei due protagonisti, differenziati “solo” dal colore rosso (formica) e giallo (cicala) delle loro tute spaziali (immagine composta – MVM).

Un buon film dovrebbe avere un buon finale; lo svolgimento degli eventi e le concatenazioni servono per la chiusa finale. Ma quanti sono i film interessanti durante lo svolgimento e deboli nel finale? Non è difficile creare artifici atti a stimolare l’attenzione durante l’incedere della storia, difficile è progettare il fine dell’incedere. Quanti romanzi e/o racconti senza finale troverebbero editori disposti a pubblicarli?! L’occasione di Kubrick è anche questo; dal generale al particolare l’occasione crea sempre il finale.

I suoi temi sono alti, tanto da esautorare il senso di “genere”. Il “genere” è l’uomo. I suoi finali sono aperti, amoralizzanti e pieni di spunti. Un esempio: in “Shining” Kubrick avrebbe previsto un finale dove il bambino, ricoverato in ospedale, riceve dal proprietario dell’albergo “la pallina” di gomma… troppo dichiarato, rivelato; la materializzazione banalizza il mistero. Meglio fermarsi prima, al labirinto della psiche. Chi può sapere cosa c’è realmente dietro le visioni? Sono proiezioni mentali? Sono realtà parallele? Sono alterazioni mentali? La realtà è visione? Cos’è tangibile?… non c’è ovviamente risposta assoluta e… Dio in bicicletta che crede di essere Kubrick lo sa!

Kubrick muore poco prima di finire il montaggio di “Eyes Wide Shut”; non è molto chiara la storia, sembra che Spielberg sia intervenuto ed abbia finito il montaggio. Due elementi fanno supporre il suo intervento. Tecnicamente il film fila liscio fino a metà, poi, le concatenazioni dei cambi scena sembrano perdere quella sequenzialità logica (tra immagine, suono e parole) tipica della cinematografia kubrickiana, quella sequenzialità che impedisce di distaccarsi da un suo film anche se la visione è iniziata casualmente con lo zapping… nei suoi film spazio e tempo camminano sempre insieme. “Shining” in questo senso è perfetto. L’altro elemento coinvolge proprio il finale; troppo moralizzante per non essere in parte rimosso e troppo moralizzante per non far pensare a Spielberg (se il film “A.I.” fosse finito sott’acqua “alla ricerca della fatina dagli occhi azzurri” sarebbe stato “drammaticamente” un grande film). La struttura narrativa di “Eyes Wide Shut”, nel tipico incedere del racconto kubrickiano, riporta alla memoria il ripensamento di “Shining”. In questo senso il film sarebbe potuto finire con durezza quando la Kidman dice «Ileana si alza tra poco», appena prima della scena nel negozio di giocattoli.

Figura 28 – Il disegno di Ileana è, al contempo, estensione premonitrice del “figlia-pensiero” e del “film-pensiero”; deus ex machina dell’evento collocato al vertice superiore dell’impianto narrativo, familiare e… simbolicamente kubrickiano.

Oppure, poco dopo, in modo più simbolico e concessivo, con quel “laconico” <<non ti resta che aspettare>> detto dalla Kidman alla figlia che esprime il desiderio di avere un “grande orsacchiotto”da Babbo Natale… chiamando indirettamente in causa il Padre ed esplicitando e chiudendo quella triangolazione relazionale (padre-figlia-madre), anticipata già nelle fasi iniziali del film (fig. 28), dove il disegno di Ileana è, al contempo, estensione premonitrice del “figlia-pensiero” e del “film-pensiero”; deus ex machina dell’evento collocato al vertice superiore dell’impianto narrativo, familiare e… simbolicamente kubrickiano.

di Marco Valerio Masci

 


BIBLIOGRAFIA

  • BENCIVENNI Alessandro: Luchino Visconti, Edizioni L’Unità/Il Castoro, Milano 1995
  • GHEZZI Enrico: Stanley Kubrick, Edizioni L’Unità/Il Castoro, Milano 1995
  • LARSEN Erik: Vermeer, Catalogo completo, Edizione Octavo, Firenze 1996
  • Art Dossier (Tiziano, Caravaggio, Giulio Romano, Cinema e pittura): Edizioni Giunti
  • DE TOMASSO Francesco: Le cupole di Roma, La Meridiana Editori, Roma 1991
  • KANDINSKY Wassily: Punto, linea e superficie. Biblioteca Adelphi 16
  • MUNARI Bruno: Arte come mestiere. Editori Laterza 107, 1995 Roma
  • CIMENT Michael: Kubrick, Ed. Rizzoli, 1999
  • ALBERONE Ezio: Stanley Kubrick, ed. Mondadori

 


NOTE

1 Solo 1 persona su 100 è in grado di disegnare con sufficiente coscienza e autonomia di comunicazione; il dato emerge dalle valutazioni del corso di Percezione e Comunicazione Visiva tenuto dal sottoscritto, facoltà di Scienze della Formazione Primaria, Università di Roma 3.

2 La comunicazione, qualunque sia il linguaggio, è redistribuzione di valenze, prevalenze e portanze, interne alle logiche sintattiche e grammaticali proprie a quel dato linguaggio. Valenze, prevalenze e portanze esistono e sussistono sempre e la loro redistribuzione è differenziata in funzione delle necessità di comunicazione: quando si dice che la pittura astratta è anche suono non vuol dire che non si possa riscontrare questa valenza associativa-ispirativa all’interno del rinascimento e/o di qualunque altra corrente comunicativa, bensì vuol dire che nell’astrattismo tale componente è prevalente rispetto ad altre valenze. Questo vale per qualunque elemento comunicativo fondante e caratterizzante una data forma di linguaggio.

3 Si riassume concettualmente quanto espresso durante un dibattito radiofonico (RadioRadio, 26 luglio 2005 – conduttore Francesco Vergovich).

4 Tutte i linguaggi prima di essere arte sono comunicazione, e tutta l’arte, poi, col tempo, torna ad essere comunicazione. Troppo spesso, il dipingere o il suonare appare arte per definizione prima ancora di esserlo. Eppure chi scrive poesie non è subito chiamato artista. Tale dicotomia di redistribuzione tra valenze linguistiche è tutta interna all’analfabetismo visivo e musicale in cui versa il sociale attuale: dove c’è maggiore ignoranza c’è maggiore possibilità di attribuzioni “involontarie”… o volontarie.

5 La Televisione, spesso luogo di prevalenti finalità commerciali, propone il paradigmatico “applauso interructus”; esibizioni canore dal vivo e non, devastate da applausi accesi ad ogni pausa canora del cantante. Risate elettroniche a seguire il silenzio del dopo battuta del comico. Ansia del consenso, ansia del silenzio, ansia del­l’audi­tel. Il silenzio non riesce a trattenere il “touch down” del dito del telespettatore che muove verso altri approdi…

6 Si ringrazia la dott.ssa Marianna Balfour per la traduzione e l’analisi delle equivalenze linguistiche.

7 Telecamera a spalla che, con un sistema di contrappesi, permette riprese senza tremolii anche in condizione di movimentazioni estreme. La Steadicam, Steady Cam o Steady-Cam viene indossata dall’operatore per mezzo di un’imbracatura. È stata inventata nel 1975 dall’operatore Garrett Brown con la collaborazione della Cinema Products di Ed Di Giulio. Le erranti sequenze di “Shining” (1980) sono state girate da Garrett Brown in persona. La Steadicam venne impiegata per la prima volta in “Questa terra è la mia terra (Bound for glory)” del 1976, di Hal Ashby, e successivamente in: “Rocky”, 1976, di John G. Avildsen; “Il maratoneta”, 1976, di John Schlesinger; “Halloween, la notte delle streghe”, 1978, di John Carpenter; “Alien”, 1979, di Ridley Scott. Nel 1978 Brown e la Cinema Products hanno ricevuto un Premio Oscar per l’invenzione.

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