Per un cinema non letterario

Qual è l’importanza di un’analisi musicale delle opere kubrickiane?

Dal momento che il cinema e gli orientamenti estetici di Kubrick sono decisamente improntati ad un modello percettivo-ricettivo apertamente emozionale e radicato nella sfera del subconscio, un’analisi che voglia rendere merito alla potenza evocativa e allo spessore semantico delle sue creazioni dovrà necessariamente prendere in considerazione quei codici espressivi non verbali – immagini e musica – che di questo modello sono principali strumenti.

Nelle interviste il regista ha più volte sottolineato come il linguaggio verbale risulti inadeguato al raggiungimento di quell’immediatezza comunicativa ed espressiva che, secondo lui, costituisce la vera essenza del cinema: “Un film assomiglia – o dovrebbe assomigliare – più alla musica che alla letteratura. Dovrebbe offrire un crescendo di stati d’animo, di sensazioni. Il tema di fondo, il significato, ciò che è al di là delle emozioni, dovrebbe venire solo in un secondo tempo”.

Come afferma Bassetti in Kubrick e la musica, il suo è un “progetto di cinema sensibile e di espressività al quadrato, saldamente non-letteraria, dove immagini e suoni, impastati in sintesi, godono d’una posizione privilegiata rispetto all’esattezza, ma anche finitezza semantica e povertà connotativa delle soluzioni verbali e prosastiche”.

È ancora Kubrick ad affermare: “Ci sono certe aree di sensazione e realtà che sono particolarmente inaccessibili alle parole. Forme di espressione non verbale come la musica e la pittura possono arrivare a queste aree, ma le parole sono una terribile camicia di forza. È interessante quanti prigionieri di questa camicia di forza non sopportino che essa venga allentata”.

Un’indagine sulla metodologia applicativa musicale sarà dunque particolarmente utile ai fini della comprensione di poetica e strategie di rappresentazione di un autore come Kubrick, tanto raziocinante e calcolatore in ogni aspetto del processo creativo, quanto restio ad esternare verbalmente tale poetica.

Dati questi presupposti, le soluzioni musicali privilegiate saranno spesso dettate da un criterio impressionistico, alla ricerca della suggestione timbrica o ritmica, sfruttando le connotazioni psicoacustiche basilari di immediato impatto, fino a ridurre la musica – mediante tagli, rimaneggiamenti, ricomposizioni arbitrarie – “ai gradi minimi di significazione”, per dirla ancora con Bassetti. Il procedimento si mostra in tutta la sua evidenza in The Shining: in un film interamente imperniato sui labili confini tra sogno, realtà e follia, in cui allo spettatore viene costantemente richiesto di fornire un’interpretazione logica resa tuttavia impossibile dalla natura stessa delle informazioni che egli riceve, incoerenti e destituite di ogni veridicità, il sonoro concorre a trasfondere alla vicenda il senso dello smarrimento, che assume consistenza reale e simbolica nell’onnipresente immagine del labirinto. Di questo smarrimento la musica è riflesso ed espressione, subendone a sua volta i meccanismi: l’approccio del regista alla materia musicale è, infatti, deliberatamente frammentario e incoerente, a differenza di quello adottato nelle opere precedenti che, sebbene eterodosso, aveva sempre mantenuto un certo rispetto per l’integrità strutturale dei brani. I lavori di Ligeti, Bartók e Penderecki rappresentano qui il dedalo sonoro per elezione: con la loro assenza di tonalità, melodia orecchiabile, omogeneità ritmica, distinzione netta tra suono e rumore e – dopo il montaggio filmico – un modello formale chiaramente riconoscibile, non forniscono alcun punto di riferimento all’ascoltatore, che ne subisce il crudo impatto senza mediazione alcuna. Essi vengono trattati come vera e propria materia prima, paragonabile a quel che può costituire il serbatoio di suoni rubati alla vita quotidiana per un brano di musica concreta.

D’altra parte il medesimo trattamento artigianale e bonariamente irrispettoso della fonte musicale porterà in altre circostanze a risultati più complessi, un gradino oltre l’immediato e il meramente sensoriale. Questo è il caso della tipica caustica ironia kubrickiana che scaturisce dalla giustapposizione antifrastica fotografia-narrato-brano, attraverso più o meno espliciti riferimenti musicali ad un contesto estraneo o addirittura contrapposto a quello della vicenda narrata. Emblematica in questo senso è una delle più celebri e celebrate pagine del cinema kubrickiano: la coreografica aggressione scandita da Singin’ In The Rain in Clockwork Orange (suggerita a Kubrick dall’attore Malcom McDowell).

Sarebbe ovviamente ingenuo, oltre che ingeneroso nei confronti di un autore sofisticato come Kubrick, considerare un simile approccio disincantato alla materia musicale come frutto di una mancanza di sensibilità verso la storia della musica e la poetica dei singoli compositori; quello che invece egli attua, soprattutto nell’impiego di brani non ancora metabolizzati dalla cultura di massa e, in quanto tali, privi di grossa risonanza nell’immaginario collettivo, è un processo di decontestualizzazione e ricontestualizzazione della pagina musicale – a discapito della sua originaria coerenza interna – mirato a conferirle un nuovo spessore semantico, alla luce anche di imprevedibili accostamenti con le immagini.

Demolire, smantellare per riappropriarsi di una materia arricchita – in sostanza – e il tutto in base al criterio selettivo di un coinvolgimento immediato e viscerale, perseguito attraverso un procedimento empirico: la prassi dei tentativi più o meno mirati, del caso, dei ripensamenti.

Così accadde per la colonna sonora di 2001: A Space Odissey, la cui origine “casuale” è confermata anche dalle dichiarazioni di Birkin, all’epoca collaboratore di Kubrick: “Nella cabina di proiezione trovai una pila di vecchi dischi di musica classica che [Kubrick] metteva per il pubblico delle anteprime […] Stavamo guardando un’inquadratura di un’astronave e si cominciò a sentire un vecchio vinile gracchiante del Danubio Blu. Dopo qualche istante Stanley disse: ‘Sarebbe una follia o un colpo di genio usare questa musica nel film?’”. Onde evitare di addentrarci nell’annosa questione del rapporto tra genio e follia, ci limiteremo ad osservare che la felice intuizione diede vita ad uno dei più indimenticabili esempi di sincretismo audiovisivo: la navicella spaziale si anima prendendo parte all’aggraziata coreografia di un Valzer che è celebrazione dei fasti e della cultura dell’uomo e del suo impero (quello asburgico) al colmo del suo splendore.

Se si accetta la suddivisione – suggerita da molti – della produzione Kubrickiana in un prima e dopo 2001, si può ammettere che un’analoga svolta, seppur graduale e nella continuità, sia riscontrabile anche nella qualità delle colonne sonore.

Lo spartiacque databile al ‘68 definisce una maggiore partecipazione di Kubrick alla fase progettuale ed operativa, segnando l’abbandono di deleghe nei singoli campi di competenze a favore di un maggior accentramento del controllo nelle mani del regista.

Ovviamente l’aspetto musicale non si sottrae a questa tendenza, che si traduce in un allontanamento dalle logiche della retorica e del velato populismo delle partiture originali scritte per i primi film.

La tendenza alla sobrietà, alla formula icastica da una parte, e il rigetto della retorica musicale tipica del modello hollywoodiano dall’altra, sono parallele e coerenti con il progressivo prender forma del carattere dei lavori più maturi, cioè l’atteggiamento problematizzante, indagatore più che assertivo, lontano dalla facile stigmatizzazione di verità dogmatiche. Un cinema – in breve – “speculativo” e più propriamente filosofico, cui una colonna sonora ridondante e accattivante non si confà ormai più.

Che 2001 segni una tappa fondamentale nello sviluppo della sensibilità kubrickiana per il sonoro si arguisce sin dall’inizio del film, precisamente dai primi tre minuti di ouverture musicale a schermo nero, ed è ancor più evidente se si considera che per la mezz’ora iniziale non viene proferita parola; i dialoghi, quando arrivano, coprono appena 46 minuti contro i 141 della durata del film. Kubrick rievocava così suggestioni proprie del cinema muto (che – guarda caso – durante le prime veniva accompagnato dall’esecuzione live di brani rubati al repertorio classico e popolare) esaltando la funzione dei codici linguistici specificamente cinematografici del raccontare una storia per immagini.

Non c’è da stupirsi dunque se egli affermerà: “Non mi piace parlare molto di 2001 perché è essenzialmente un’esperienza non verbale” ed, in effetti, i rari dialoghi non aggiungono molto alla comprensione di un film filosofico, enigmatico e sensoriale, del quale rimangono invece impressi nella memoria dello spettatore coaguli insolubili di immagini e suoni che sarebbe decisamente riduttivo definire come accostamenti: i cori di Ligeti non sottolineano la presenza terrifica dell’alieno e dell’ineffabile, sono essi stessi emanazione diretta del monolite e manifestazione sensibile del suo enigma. L’incipit dell’Also sprach Zarathustra, con lo slancio ascendente e la limpida geometria tonale della sua melodia, è espressione e trasposizione sonora delle tappe evolutive dell’umanità sull’immutabile scenario di un cosmo che rispecchia una sensibilità tutta kubrickiana per l’esprit de géometrie. Molti altri episodi si potrebbero prendere in considerazione in questa sede, ma forse nessuno come l’epilogo metafisico, in cui Bowman assiste ai diversi stadi della propria vita, rappresentati da altrettanti alter ego, può rivelare l’entità della sfiducia del regista nella comunicazione verbale e parallelamente la consapevolezza delle potenzialità espressive del sonoro (e del visivo). È infatti, paradossalmente, proprio l’assenza di un commento musicale a fornircene una controprova: laddove neanche le atmosfere rarefatte di Ligeti possono suggerire l’alterità di una dimensione parallela, rimane solo il respiro del cosmonauta, in soggettiva, a rappresentare la vita che palpita e contemporaneamente scivola via nella solitudine dell’assoluta, muta unione di spazio e tempo.

di Flaminia Grütter

 

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